È una pace fragilissima e sempre a rischio, quella su cui poggia il Sud Sudan guidato dall’ex generale ribelle Salva Kiir Mayardit e dai sui quattro vice, tra cui il rivale di sempre, Riek Machar. I due si sono combattuti in una feroce guerra civile per almeno sette anni, fino all’epilogo del gennaio scorso.
Le opposte fazioni – gruppi armati ribelli che reclamavano fette di potere e territorio – hanno trovato un ulteriore accordo a giugno scorso, basato sul ‘power sharing’: l’esatta spartizione del Paese in dieci governatorati, ognuno rappresentato da un gruppo.
«Ora resta la vulnerabilità di un popolo con oltre quattro milioni di sfollati interni e sei milioni di persone che dipendono dagli aiuti umanitari», scrive Human Rights Watch. La nazione più giovane al mondo – nata il 9 luglio del 2011 – è segnata da «paura e settarismo etnico» (65 le etnie presenti, comprese le due maggioritarie Dinca e Nuer).
«Sono stati nove anni di sofferenze – conferma padre Daniele Moschetti, missionario comboniano a Juba fino al 2017 – I primi due dell’indipendenza dal Sudan furono in realtà anni di grandi speranze e trepidazione; poi è iniziata l’instabilità sfociata in guerra civile».
La presenza di numerosi oleodotti e pozzi di petrolio ha giocato un ruolo da protagonista in questa guerra “civile a singhiozzo”, come la definisce Caritas Italiana. Ora la pace è «fragile come un cristallo», ripete la stampa internazionale. Il 17 giugno scorso il presidente Salva Kiir e l’ex rivale Riek Machar si sono accordati per la nomina dei governatori dei dieci Stati in cui è suddiviso. E da qui si riparte per provare a dare un po’ di stabilità ad uno Stato potenzialmente ricchissimo.
«Speriamo nella capacità di giudizio e nella responsabilità di questi leader; il rischio che ricomincino a combattersi è forte», dice padre Moschetti, ricordando quando vennero in visita dal Papa a Roma nell’aprile del 2019.
«In quell’occasione Francesco baciò simbolicamente i loro piedi – ricorda il missionario -; ma il pontefice stava in realtà così baciando i piedi di un intero popolo, di uomini e donne che hanno sempre sofferto e sono morte a migliaia per questa guerra». Alcuni analisti internazionali definiscono il Sud Sudan “uno Stato fallito”, come la Somalia, ma i missionari ne parlano come di un Paese generoso dal punto di vista delle risorse, i cui proventi andrebbero redistribuiti. E soprattutto come di una realtà piena di energia e vita, con una popolazione giovanissima: l’età media non supera i 30 anni. E’ un Paese ricco di minerali di ogni sorta, tra cui il nuovo ‘oro’, il cobalto.
«C’è molto più del petrolio – spiega padre Moschetti che ha girato in lungo e in largo le diocesi e conosce molto bene la Chiesa locale – che pure è concentrato qui al 70% rispetto al vicino Sudan. Ma le ricchezze vanno gestite senza corruzione».
E invece questa è stata fin dall’inizio la cifra della politica locale. Altro elemento di debolezza è il fatto che i governanti sono tutti ex militari o generali, impreparati a gestire la cosa pubblica: «non c’è mai stata una formazione degli ex combattenti alla vita amministrativa e politica», dice. Si aggiunga il dolo di una comunità internazionale che dopo i primi entusiasmi ha lasciato il Paese sostanzialmente solo.
Caritas Italiana lo dice molto chiaramente nel dossier appena pubblicato (“Sud Sudan, pace a singhiozzo”). «Se l’instabilità ha caratterizzato le vicende interne del Sud Sudan, l’indifferenza è ciò che contraddistingue i suoi rapporti con l’Europa e con l’Italia in particolare. Un’indifferenza accresciuta a partire dalla sua nascita, quando il Paese ebbe grande visibilità e il mondo intero salutò con favore il nuovo Stato africano. Si sa però che la Storia sa voltare pagina in fretta e così è stato per il giovane Sud Sudan, che improvvisamente si è trovato nell’oblio dell’informazione di massa e dell’attenzione politica occidentale».
(la foto in evidenza è tratta dal rapporto Caritas, mentre quella nel pezzo dal dossier 2020, cliccando qui).