I greci antichi chiamavano gli stranieri in generale ed i pirati in particolare thyrrenoi e tra quelle genti c’erano pure gli etruschi, popolo composto anche da ferocissimi e temuti predoni del mare. Insomma, da sempre ovunque ci fossero imbarcazioni da assalire i saccheggi ai danni dei naviganti sono stati un flagello. L’evolversi delle tecnologie, i radar ed i satelliti, lo sviluppo incredibile dei sistemi di controllo e sorveglianza non sono stati in grado di debellare il fenomeno e, malgrado se ne parli poco, i pirati colpiscono ancora. Perù, Ecuador, Brasile, Messico, Colombia, Angola, Benin, Egitto, Ghana, Nuova Guinea, Cina, Vietnam, Filippine, Indonesia sono solo alcuni dei Paesi dove operano flottiglie di bucanieri.
Da un paio di anni Haiti, St. Lucia, Nicaragua e Honduras mostrano una crescita delle incursioni senza precedenti. L’allarme è serio pure in Venezuela, specialmente nelle acque che separano quel Paese da Trinidad e Tobago. In questo spazio di mare, secondo uno studio dell’organizzazione no profit Oceans Beyond Piracy, nel solo 2017 si sono avuti 71 incidenti di rilievo tra arrembaggi ai danni di mercantili e attacchi a yacht di turisti. L’aumento percentuale, rispetto all’anno precedente, è stato macroscopico, del 163%. Insomma, le coste settentrionali del Sud America appaiono invase da una dura offensiva della pirateria. Le bande sono composte da ex mercenari, trafficanti di armi e di giovani donne, narcos e persino bracconieri che commerciano in animali esotici. Jeremy McDermott, direttore esecutivo e fondatore di Insight Crime, un’organizzazione che analizza il crimine in America Latina e nei Caraibi, ha detto: «È il caos, un “liberi tutti” lungo la costa venezuelana». Sempre lo scorso anno, Stuart Young, ministro della Sicurezza Nazionale di Trinidad e Tobago, è arrivato ad annunciare con un tweet l’attuazione di misure straordinarie per rafforzare il sistema radar del Paese, ed un suo connazionale, il deputato Roodal Moonilal, ha aggiunto in una dichiarazione al Washington Post che la situazione gli ricorda «la crisi delle coste dell’Africa orientale».
Lungo le coste del Corno d’Africa
Sì, perché lungo le coste del Corno d’Africa, a causa della guerra interna somala cominciata nel 1991 e mai conclusa, colpiscono numerose flottiglie di bucanieri. Dopo una prima fase di escalation degli attacchi, sono cominciati i pattugliamenti navali delle missioni internazionali Ocean Shield e Eunavfor Atalanta e le scorribande sono cessate per cinque anni, dal 2012 fino ai primi mesi del 2017. Il 13 marzo di quell’anno al largo delle coste di Alula, nella regione semi-autonoma somala del Puntland, fu sequestrata una petroliera.
E’ stato il segnale della ripresa delle incursioni, concentrate in particolare nel Golfo di Aden e lungo la costa tra Oman, Yemen, Gibuti, Somalia e Kenya. La zona è stata definita Health risk assessment (Hra), ovvero Area ad alto rischio. Ma come mai i bucanieri somali sono tornati a colpire? Prima di tutto perché molte delle unità navali militari impegnate nel contrasto alla pirateria sono state dirottate nel Mediterraneo per controllare le partenze dei migranti verso l’Europa. Poi c’è il problema dei rifiuti tossici che le organizzazioni criminali occidentali scaricano in quelle acque. Infine le massive battute di pesca illegale praticate in larga scala da flottiglie straniere. La conseguenza di questi fatti è che molti villaggi legati all’economia del mare sono alla fame e così per sopravvivere i pescatori hanno scelto la rotta del crimine. Ma non solo.
Rapimenti e riscatti
In un reportage ancora attuale nel lontano 2008 la Bbc rese noto che i predoni del mare somali non debbono essere considerati come un gruppo omogeneo. Si tratta piuttosto di bande diverse, composte da migliaia di uomini con scopi eguali ed origini differenti. Come abbiamo visto ci sono i pescatori che sfruttano la pirateria per sopravvivere, ma anche i miliziani dei signori della guerra che si sono riconvertiti alla pirateria ed hanno formato una rete criminale in grado di far guadagnare loro molto denaro. Ed infine c’è la presenza delle forze integraliste. Joshua Meservey, uno studioso della Heritage Foundation, ha scritto che i pirati ed i terroristi sono legati da un accordo in base al quale, grazie alle entrate derivate dai riscatti ottenuti per la restituzione delle navi e la liberazione degli equipaggi, le due parti si riforniscono di armi e pagano i combattenti. Secondo il ricercatore, gli integralisti ricevono armi e uomini dai pirati, che per questo lavoro trattengono gran parte del denaro estorto agli armatori e soprattutto non subiscono attacchi armati dalle formazioni islamiste. Si deve tenere conto che la Somalia meridionale è controllata dagli al-Shabaab mentre l’Islamic State si concentra nell’area settentrionale del Puntland.
In Africa, però, i bucanieri colpiscono anche in altre regioni. Lo scorso anno si sono contati 87 arrembaggi lungo le coste del Continente nero e la maggior parte erano nel Golfo della Guinea, soprattutto davanti al Delta del Niger. L’aumento delle incursioni in quest’area è in gran parte causato dall’instabilità politica, che lascia spazio alle attività criminali ed alla situazione economica. La corruzione diffusa ed il controllo sulle materie prime da parte delle grandi potenze non permettono un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione ed allora le bande di pirati trovano adepti con facilità.
Protezione navale
Oceans Beyond Piracy ha spiegato che per rispondere alle razzie «le flotte dei Paesi interessati hanno continuato a migliorare le propria capacità di azione attraverso l’acquisizione di nuove risorse navali, con più incisive esercitazioni multinazionali e grazie all’ulteriore sviluppo della rete di scambio delle informazioni». I Paesi coinvolti nella crescita della pirateria sono in particolare Benin e Nigeria. L’Hellenic Shipping News ha scritto che «l’ultimo rapporto della società di servizi di sicurezza Eos Risk Group ha mostrato come i pirati nigeriani hanno rapito 35 marinai dalle navi nel Golfo di Guinea tra gennaio e giugno del 2018».
Ghana, Togo, Benin e Nigeria hanno stabilito “zone sicure” vicino ai porti principali. Si tratta di aree delimitate in cui le navi possono ancorare in sicurezza o effettuare trasferimenti di merci da nave a nave. In Nigeria compagnie private forniscono la manutenzione, la logistica e svolgono tutte le attività di pianificazione e fatturazione per conto dei clienti. Le forze armate, a loro volta, impiegano personale di sicurezza armato. In Ghana la Ports & Harbor Authority è responsabile della fornitura di pattuglie per la difesa dalla pirateria. Nel Benin e nel Togo le marine militari sono impegnate in pattugliamenti. Oceans Beyond Piracy stima che il funzionamento di questi servizi abbia avuto l’anno scorso un costo di 9,3 milioni di dollari, una somma enorme se si pensa ai redditi medi dei cittadini.
Per quanto riguarda il Sud-est asiatico, l’Intenational Maritime Bureau (Imc) nel suo rapporto annuale sulla pirateria del 2018 ha reso noto che in «Bangladesh i bucanieri continuano a colpire le navi all’ancora» e che la maggior parte degli arrembaggi sono segnalati a Chittagong, il principale porto e seconda città del Paese con oltre sei milioni di abitanti.
Secondo l’Imc per fortuna le incursioni «sono diminuite significativamente negli ultimi anni grazie agli sforzi delle autorità. Di recente, tuttavia, sembra che gli attacchi stiano aumentando». In Indonesia, informa sempre il Bureau, gli attacchi sono diffusi e i «pirati sono normalmente armati di pistole, coltelli e machete». Si segnalano incursioni anche in Vietnam, a Singapore, nelle Filippine, in India, in Malesia, nello Stretto di Malacca e nel Mar cinese meridionale. La pirateria, crimine antichissimo, non sembra trovare argine. Sono passati 20 anni del un Nuovo millennio ma non si annunciano soluzioni. Fino a quando non saranno colmati i ritardi nello sviluppo dei Paesi colpiti, gli arrembaggi continueranno.