Dopo i primi mesi trascorsi qui a Manila, sono pronto per raccontare la vita delle famiglie che trovo attorno a me, cominciando da quelle che popolano le squatter areas. In italiano le chiamiamo “aree abusive”. Usando un termine meno tecnico, ma forse più sincero, sono baraccopoli.
Qui, di fatto, costituiscono buona parte del territorio della parrocchia. Mi hanno raccontato i più anziani che, in molte di queste aree, più di 30 anni fa non c’era nulla, o quasi. I fiumi e le coste erano sgombri, puliti: ci si poteva tranquillamente nuotare e pescare.
Adesso sono rinchiusi da un intricato groviglio di baracche, immondizia e persone ammassate.
Le abitazioni delle famiglie sono realizzate utilizzando ogni sorta di materiale a disposizione trovato per strada, nella discarica, o regalato da qualche amico.
Le stradine che separano i blocchi di baracche o i building sono per lo più melmose anche dopo giorni dall’ultimo temporale.
L’immondizia si trova un po’ ovunque, tanto che entrare in queste zone comporta un discreto sforzo di adattamento dell’olfatto.
Le fogne non esistono: dove sono presenti, si riducono ad un fosso a cielo aperto, ricolmo di melma nera e minacciosa, che passa nientemeno che al centro delle già strette e affollatissime stradine.
Per farvi un esempio, quando ci riuniamo con uno dei gruppi di lettura della Bibbia, il nostro cerchio di 15 sgabelli è attraversato giusto a metà da una di queste terribili “fognette”.
Poco distanti, i bambini giocano con i loro semplicissimi giochi, sereni, nella convinzione che tutto questo sia “normale”.
Le persone che nel frattempo passano lungo la stretta strada in cui teniamo l’incontro (nessuna delle case potrebbe contenerci tutti) devono fare un percorso ad ostacoli per evitare di mettere un piede dentro al micidiale fossato. Sembra di vivere in un videogame.
Eppure questa è la normale vita di ogni giorno per la maggior parte delle persone che abitano a Manila.
Mi rendo conto di quanto sia difficile (per non dire impossibile) comprendere quello che descrivo senza averlo visto, toccato (e annusato) in prima persona.
Occorre anche considerare che la realtà è più complessa. Ad esempio, queste comunità non sono totalmente indifferenti o rassegnate all’immondizia e al degrado, ma si sforzano di rendere più abitabile il loro ambiente: varie pavimentazioni stradali di cemento, la copertura di qualche fogna, la creazione di campetti per il basket o altre attività comunitarie sono alcune delle molte migliorie che si possono notare e apprezzare solo frequentando questi luoghi nel corso di mesi o di anni.
In un tale contesto, viene spontaneo chiedersi perché queste persone non se ne vadano altrove. In passato alcuni nuclei famigliari erano stati ricollocati in altre zone, ma dopo poco tempo sono ritornati indietro perché la nuova sistemazione li isolava dai quei servizi che, pur vivendo in uno squatter, la città poteva offrire loro: ospedali, scuole, possibilità di svolgere lavori occasionali, ecc.
Spesso entrano in gioco anche aspetti educativi: ci sono adulti che vanno letteralmente educati a cogliere il valore di una vita diversa, per sé stessi e per la loro famiglia, e ad accettare, ad esempio, di sostenere le responsabilità quotidiane (pagamenti di utenze o affitti, impegni lavorativi, ecc.) o di curare seriamente l’igiene (della casa e dei figli), per evitare che si creino ulteriori problemi di non facile soluzione.
Connessi a questi, ci sono anche aspetti più ideologici e politici. Ma forse sarà meglio approfondirlo un’altra volta.
Don Graziano Gavioli, fidei donum della diocesi di Modena
Manila (Filippine)