Come in tutti i Sud del mondo, le periferie sono terre umiliate da povertà, sopraffazione e disoccupazione. Non bisogna attraversare oceani e montagne per scoprire l’anima dolente di Napoli, seguendo padre Antonio Loffredo nei vicoli del Rione Sanità o camminando in mezzo alle costruzioni moderne e già degradate di Scampia con padre Domenico Pizzuti.

Il documentario Luci sulla frontiera della giornalista Ilaria Urbani, prodotto da Ladoc, Isola Film e Lorenzo Cioffi, apre le porte di mondi ai margini, dove lo Stato ha abdicato al suo ruolo e le persone aspettano dal Vangelo l’occasione di riscatto della loro dignità.

Con la guida della voce narrante dello scrittore Roberto Saviano, scorre il racconto di sei missionari metropolitani che danno volto a parole come solidarietà, pace, giustizia, educazione, accoglienza.

«Il nostro servizio tra la gente e con la gente non è una esclusiva di noi sacerdoti, ma è il dovere di ogni cittadino e di ogni uomo di Vangelo» dice l’anziano padre Pizzuti, instancabile gesuita, sociologo, giornalista, blogger, che ogni giorno mette la sua cultura a servizio di migranti e rom in quell’area stigmatizzata dalla camorra come regno del disagio sociale. Pizzuti segue insieme ad alcuni volontari un ambulatorio per i rom (profughi arrivati 30 anni fa dalla ex Jugoslavia), organizza percorsi di integrazione, accompagna i bambini a scuola, fa la spesa per chi non ha soldi.

Attraverso il suo sguardo vediamo Scampia come un quartiere che rifiuta la rassegnazione ma spera nella rinascita.

Ascolta chi dice: «Ci sentiamo vittime di un giudizio sommario: tutti ladri, drogati, camorristi. Più che un pregiudizio è uno stigma» e continua il suo lavoro di ogni giorno per cambiare le cose.

Nella periferia Est di Napoli, don Gaetano Romano da 30 anni è il parroco di san Giovanni a Teduccio, un ex quartiere operaio affacciato sul mare inquinato dalle fabbriche del litorale partenopeo. Racconta che «quando sono arrivato c’era un deserto.

Mi sono ritrovato solo con un bicchiere d’acqua, ho pensato che per un moribondo nella sabbia, quel bicchiere era tutto. Ho sempre sognato di essere Chiesa di strada e questa era la mia occasione».

In mezzo ai bambini del catechismo sembra un nonno affettuoso, che ben si presta a girare il sugo della pasta, quando la volontaria Carmela sta per mettere a tavola un piccolo popolo di ospiti inattesi.

La frontiera di padre Carlo De Angelis è la tossicodipendenza dei giovani tra Miano e Secondigliano, nella periferia Nord di Napoli. Droga e bande criminali si fondono in un micidiale innesto di violenza e disagio che tocca moltissime famiglie provate dalla povertà materiale, morale e culturale.

Molti ragazzini, infatti, subiscono il richiamo della malavita ai facili guadagni e abbandonano presto la scuola. Qui la testimonianza del Vangelo ha bisogno di gesti più che di parole; di semplicità e coraggio come quando a padre Carlo è capitato di trovare armi in parrocchia.

Molti giovani in bilico da riportare sulla traiettoria di un futuro dignitoso sono il gregge irrequieto a cui si dedica padre Antonio Loffredo nel Rione Sanità, un’isola nel centro di Napoli stretta dagli artigli della camorra. Padre Antonio affronta degrado civile e disoccupazione trasformando chiese, antichi palazzi in siti monumentali visitati da turisti, in cui i giovani possono trovare lavoro.

Ripete come don Milani che «la cultura è l’ottavo sacramento» e coniuga cultura e imprenditorialità per un cambiamento culturale di cui il restauro delle Catacombe di san Gennaro è l’esempio più famoso, visitato ogni anno da migliaia di turisti di tutto il mondo.

Così si cambia il volto della città, «la mentalità della gente e il cuore dei giovani» che possono aprire i loro orizzonti esistenziali su realtà che gli appartengono, ma che nessuno gli aveva fatto conoscere».

C’è poi la missione di don Franco Esposito, che tra Vangelo e canzoni di De Andrè, è cappellano del carcere di Poggioreale. Con i suoi volontari ha fondato un centro a Forcella in cui ha preso in affido 50 detenuti e altri 10 agli arresti domiciliari. Un modo per scontare la pena in condizioni più umane, per affrancarli dalla camorra che dalle sbarre arriva con un balzo dietro le sbarre. E riscoprire che il vero significato della parola libertà è chiuso nell’anima.

Dall’Africa a Napoli, don Félix Ngolo, congolese, è arrivato a Pozzuoli come migrante e ha trovato una umanità perduta e il calore della sua terra natale.

«Ho capito che per arrivare al cuore dei fedeli dovevo essere uno di loro. Parlare il dialetto e tifare Maradona» spiega mostrando la sciarpa bianco-azzurra della squadra di calcio. Così il parroco di Rione Toiano vive lo sport come una forma di aggregazione per le famiglie della baraccopoli d’amianto chiamata “i containers” dove la povertà ha tutte le facce del disagio.

«Ci voleva un prete così allegro in questo rione» dice la gente. E don Félix risponde: «Qui non c’è la situazione drammatica del mio Paese in Africa, ma c’è tanto bisogno di umanità e di Vangelo. Insieme alla Chiesa, camminando insieme, possiamo fare molto per cambiare la vita».

(l’articolo è pubblicato sul numero di febbraio di Popoli e Missione)