«Cinque anni passano veloci, ma questo tempo, se vissuto intensamente, inevitabilmente lascia il suo segno». Inizia così la lettera di Jose Soccal, missionario laico della diocesi di Belluno- Feltre, appena rientrato dalla Thailandia.

«Mentre parlo mi rendo conto che sto rimanendo sulla scorza, non penetrando quello che è il vero cuore di questa esperienza. – dice –  Cerco di farlo, ma nonostante l’intento, capisco che non riesco a immergermi, mi sento un po’ come un salvagente che risale in superfice spinto dalle forze del principio di Archimede».

Tra i tanti ricordi però Josè ne tira fuori uno, molto significativo perché dà testimonianza del sovvertimento delle normali funzioni ecclesiastiche. O meglio, ci fa comprendere quanto in missione un laico sia “corresponsabile” delle prerogative sacerdotali. 

«Sono a Bangkok, siamo in una piccola cappella di un ospedale, pronti per celebrare la messa. I quattro missionari e il vescovo Giuseppe di Pordenone entrano in sacrestia per cambiarsi. Io rimango li, seduto su di una sedia davanti all’altare.

Rimango solo. Rientrano compostamente in fila, accompagnati da un canto intonato da loro ed io mi alzo in piedi.

Si dispongono tutti davanti all’altare e con un inchino salutano Colui che è presente nel tabernacolo.

I sacerdoti mi guardano, e all’unisono mi suggeriscono di accomodarmi con loro nel presbiterio. Impacciato salgo i due scalini con la sedia in mano, non sapendo se devo fare la genuflessione oppure no. Scelgo la soluzione più semplice, vado dritto e chino solo il capo.

Don Bruno Soppelsa mi fa spazio e mi sorride. Un piccolo gesto, ma che traduce quello che per me è stato questo tempo».

 

E così Josè, dice ero «un laico che accompagna e vive un’esperienza missionaria dall’Italia con alcuni presbiteri in terra di missione. Non solo una condivisione, ma una vera corresponsabilità».

«Da bambino sono stato educato ad una distinzione netta tra le diverse ministerialità, dove ognuno ha il proprio ruolo, mantenendo sempre una distanza tra quella che è la vita sacerdotale e quella laicale. In realtà non sono quelle cose che vengono insegnate a catechismo o in famiglia, ma che diventano esplicite quando si diventa adulti».

 Si tratta di superare le barriere dell’età, della ministerialità e in alcuni casi anche di competenze.

«Quando il missionario si congeda da te al telefono o di persona e ti dice ogni volta “grazie per quello che fai per noi” per me non è solo un ringraziamento, ma è la presa di coscienza che stiamo lavorando insieme, compatendo fatiche, gioie, proprio come una avviene in una vera famiglia.

 

Tutto diventa più facile, i rapporti umani si distendono, si riesce a conoscersi meglio, a capire quello che fa male o infastidisce la persona che ti è vicina. Vivi meglio la relazione con loro, conoscendo le cose che li rende felici e fai il possibile perché questo avvenga».

 

“ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” Gesù  non ci invita solamente a farlo, ma ci dice che è possibile perché lui per primo l’ha fatto. 

C’è un proverbio Tuareg, che mi insegnò mio fratello quando era in Niger e che in questo momento sento molto mio: “quando le tende si allontanano i cuori si stringono”.