Il III° Congresso continentale di teologia latinoamericana e caraibica

 

Si è svolto nella sede dell’Università Centromericana (UCA) a San Salvador, capitale de El Salvador  dal 30 agosto al 2 settembre scorsi il terzo Congresso continentale di teologia latinoamericana e caraibica  con titolo “I clamori dei poveri e della terra ci interpellano”: a 50 anni da Medellin.  Sono confluiti nel piccolo stato centramericano teologici da tutta America Latina e Caraibi per ricordare come quanto è uscito da Medellin, ovvero dal II Incontro dell’Episcopato latinoamericano, è ancora molto attuale, anzi, da attuare.  Se Medellin nel 1968 fu l’inizio, ha confermato p. Cecilio de Lora, uno dei pochi testimoni di quella conferenza,  Puebla nel 1979 (la terza conferenza dell’episcopato latinoamericano, alla presenza di Giovanni Paolo II) fu la conferma decisa del cammino intrapreso. “Per la prima volta nella storia delle chiese locali un continente si fermava per attualizzare nel proprio contesto un Concilio”. E’ questo che avvenne a Medellin alla fine di agosto del 1968, ha detto p. Andreu Oliva, gesuita, rettore della UCA. Non è stato  indolore, ha continuato il cattedratico: “tanto impegno ci misero i vescovi per portare a termine i 16 lavori che compongono il documento  di Medellin, altrettanto ne misero alcuni settori della stessa chiesa ma soprattutto alcuni governi latinoamericani e statunitensi per cercare di isolare e smontare gli effetti di Medellin”.  “Medellin equivaleva ad una dichiarazione di guerra”, ha esordito  il sacerdote e teologo uruguaiano Pablo Bonavia, “della chiesa contro il potere che già allora opprimeva il continente latinoamericano. Stare dalla parte dei poveri voleva dire smarcarsi definitivamente da quella politica coloniale che per secoli aveva visto il colonizzatore  al fianco del sacerdote”.  Il vescovo messicano mons. Sergio Méndez Arceo negli anni ’90 così sintetizzava Medellin:  “Qualche tempo fa nella mia diocesi di Cuernavava fui avvicinato da un giornalista che mi chiese se le mie comunità fossero rivoluzionarie,  pensando (il giornalista) che mi sarei difeso dicendo “no, non lo sono in nessuna maniera!” Invece dissi: effettivamente si, le mie comunità sono rivoluzionarie perché gente che non ha armi, che non la possibilità di comprarsi libri, che non ha incarichi, che non è importante nella società, per la prima volta incontra spazio (la comunità) dove può dire qualcosa, essere riconosciuta per quello che dice, dove può essere autorità per altri a partire dalla sua piccola storia di sofferenza, di lotta, di speranza.  Questo è certamente l’inizio della rivoluzione, quando qualcuno sente che ha molto da apportare,  che senza di lui la società non è quello che deve essere. Questo genera ascolto reciproco e un donarsi reciprocamente in un luogo che solo così diventa importante per la società”. E’ questa la chiesa che i vescovi latinoamericani hanno fatto uscire da Medellin, è questa l’opzione preferenziale dei poveri,  è questa – hanno affermato i teologi  riuniti in El Salvador-  la chiesa di papa Francesco.

Paolo Annechini