Studiava ingegneria ma poi aveva scelto di essere una Piccola Sorella dell’Assunzione e di fare l’infermiera nei quartieri operai della Parigi post bellica. Per la missione in Algeria suor Paul-Helène Saintraymond parte nel 1963 e va a fare l’insegnante ai bambini della casbah di Algeri, dove lavora presso una biblioteca insieme a fratel Henri Verges, missionario Marista, professore di matematica. Insieme vengono uccisi l’8 maggio 1994, primi martiri della fede negli anni più bui della guerra civile algerina che, fino al 1996, ha visto la morte di altri 17 uomini e donne che oggi la Chiesa proclama beati.
Il processo canonico iniziato nel 2005 si conclude nel Paese nordafricano, nella basilica di Notre Dame de Santa Cruz ad Orano, nel giorno dell’Immacolata Concezione di Maria, l’8 dicembre.
Non a caso la diocesi scelta è la sede episcopale di monsignor Pierre Claverie, domenicano, ucciso da una bomba il primo agosto 1996 insieme a Mohamed, il suo autista algerino, di ritorno da una veglia di preghiera in ricordo dei sette trappisti martiri del monastero di Tibhirine. Nato da famiglia francese, amava appassionatamente la terra in cui aveva visto la luce, come testimonia la sua sofferenza per le lacerazioni della guerra civile: «In questo momento siamo chiamati a condividere la sofferenza e la speranza dell’Algeria, con amore, rispetto, pazienza e lucidità». Credeva fortemente nel dialogo con l’islam e la sua fede in Cristo era così profonda da fargli dire con profetica lucidità: «Il martirio è la più grande testimonianza dell’amore. Non si tratta di correre verso la morte, né di cercare la sofferenza per la sofferenza… ma è versando il proprio sangue che ci si fa vicini a Dio. La santità è anzitutto una grande passione. C’è della follia nella santità, la follia dell’amore, la follia stessa della croce, che si beffa dei calcoli e della saggezza degli uomini».
Innamorati di Cristo
I beati d’Algeria sono un piccolo plotone di 19 uomini e donne di pace: 16 francesi, due spagnoli e un belga, e tra loro sei coraggiose consacrate, tutti rimasti in terra nordafricana malgrado l’invito delle rispettive congregazioni di lasciare il Paese insanguinato dalla lotta tra governo e gruppi islamisti. Negli anni in cui sono morte 150mila persone, in gran parte civili inermi, la Chiesa d’Algeria ha creduto nel dialogo, restando fedele alla sua missione profetica in un mondo a stragrande maggioranza musulmana.
Donne coraggiose
Di struggente intensità sono le testimonianze indelebili di missionari innamorati di Cristo, come suor Bibiane Leclercq, francese, delle suore di Nostra Signora degli Apostoli che poco prima di essere uccisa insieme alla consorella spagnola suor Angèle Marie Littlejohn scriveva: «È la gente stessa che ha chiesto di averci come sorelle. E adesso ci domandano di restare. Mi sento impotente davanti a tanta sofferenza, ma so che Dio ama questo popolo, ed ho una grande fiducia in Maria, Signora dell’Africa. Gesù ha detto: “Il Padre vi donerà tutto quello che chiederete nel mio nome”… La sua luce mi aiuta a scoprire meraviglie nascoste, gesti di solidarietà, atti di generosità, di coraggio sovrumano: lo Spirito è all’opera nei loro cuori». Era il 1995 e le due consorelle stavano rientrando dalla messa domenicale. Poco prima dell’agguato fatale, suor Angèle aveva detto: «Non dobbiamo avere paura. Dobbiamo solamente vivere bene il momento presente, il resto non appartiene a noi».
Pochi mesi prima, nel 1994 erano state uccise mentre stavano andando a messa le due suore Agostiniane missionarie spagnole Esther Paniagua Alonso e Caridad Alvarez Martin. Vestivano abiti civili e si dedicavano alla testimonianza silenziosa del servizio ai bambini, ai poveri. Angeli sorridenti accanto ai sofferenti per vivere in dialogo con l’islam e costruire ponti di dialogo in mezzo alle tensioni e alla violenza, anche loro coscienti fino in fondo dei rischi, come suor Esther dice nelle sue ultime parole: «In questo momento per me il modello perfetto è Gesù: ha sofferto ed è arrivato fino alla sconfitta della Croce da cui è zampillata la sorgente della vita». Anche la Piccola Sorella del Sacro Cuore (la congregazione fondata da Charles de Foucauld) Odette Prevost viene uccisa da un terrorista mentre sta per entrare in chiesa il 10 novembre 1995.
Martirio corale
Quattro i Padri Bianchi che hanno effuso il loro sangue per amore dell’evangelizzazione in terra d’Algeria, uccisi il 27 agosto 1994 nella loro missione di Tizi-Ouzou nel Nord del Paese. «Insch Allah» (lo sa Dio) ripeteva spesso père Jean Chevillard, francese da parecchi decenni in Algeria, responsabile di centri di formazione per giovani. Anche père Alain Dieulangard e père Charles Deckers sono stati uccisi nello stesso agguato, insieme al giovane père Christian Chessel, che aveva raggiunto quel giorno la piccola comunità per festeggiare il suo compleanno.
Ma è forse il “martirio corale” dei sette monaci trappisti di Notre Dame de l’Atlas, rapiti a marzo 1996 nel loro monastero. I loro cadaveri decapitati sono stati ritrovati il 21 maggio, le teste solo qualche giorno dopo. Una morte cruenta in odium fidei per sette martiri dei tempi moderni, rimasti al loro posto in terra di missione pur dopo avere ricevuto minacce e violenze dai terroristi islamici che li avvertivano di quale sarebbe stata la loro fine se avessero deciso di restare. Gli scritti ritrovati hanno fatto luce su una avventura umana e spirituale straordinaria, raccontata nel film “Des hommes et des dieux” (di Xavier Beauvois), tradotto in italiano in “Uomini di Dio” e premiato al Festival del cinema di Cannes nel 2018. «Dobbiamo essere testimoni dell’Emmanuele, cioè del “Dio con noi”. E’ in questa prospettiva che comprendiamo la nostra vocazione ad essere una presenza fraterna di uomini e donne che condividono la vita dei musulmani, degli algerini, nella preghiera, nel silenzio, nell’amicizia» diceva padre Christian De Chergé, priore del monastero di Tibhirine, chiedendosi: «Li amiamo davvero? E’ un momento di verità per ciascuno e responsabilità pesante in un momento come questo in cui coloro a cui vogliamo bene si sentono amati così poco. A poco a poco ciascuno impara ad integrare la morte in questo dono. Certi giorni può sembrare poco ragionevole… poco ragionevole come il farsi monaco». De Chergé ci ha lasciato un testamento spirituale a cui attingere a piene mani per trovare le radici profonde del dialogo islamo-cristiano. Nato in Francia nel 1937, partecipa alla guerra civile algerina e viene salvato dalla morte da un giovane amico musulmano. Un gesto che gli fa comprendere il senso delle parole del Vangelo «non c’è amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici» e che in qualche modo lo impegna alla restituzione di quanto ricevuto. Insieme a De Chergé, sono stati sacrificati fratel Luc Dochier, medico dei malati più poveri, padre Bruno Lemarchand, insegnante, padre Christophe Lebreton, il più giovane del monastero, fratel Michel Fleury, ex operaio, padre Celestin Ringeard, che oggi potremmo definire un “prete di strada”, e fratel Paul Favre Miville, impegnato nel costruire pozzi e sistemi di irrigazione per l’orto del monastero. Questa comunità di “eroi dell’anima” ha seminato piccoli ma preziosi semi che nel tempo silenziosamente hanno cominciato a germogliare. La comunità cristiana, la Chiesa, ha raccolto il loro testimone e nel 2005 è stato aperto il processo di beatificazione che oggi arriva al termine del suo iter. Il postulatore della causa, il monaco trappista padre Thomas Georgeon, dice dei 19 martiri che «ognuno è stato un’autentica testimonianza dell’amore di Cristo, del dialogo, dell’apertura agli altri, dell’amicizia e della fedeltà al popolo algerino. Con un’immensa fede in Cristo e nel suo Vangelo».