Sono passati dieci anni, era il 12 gennaio 2010, da quando un terremoto del settimo grado della scala Richter trasformò Haiti in un’enorme nube di polvere. L’ospedale di Pétionville si accartocciò tra le urla dei malati intrappolati, la cattedrale che si preparava al vespro seppellì sotto il crollo il suo arcivescovo, il quartiere generale dell’Onu venne giù portandosi via decine di vite su questa terra massacrata dagli uomini e dalla natura. A distanza di due lustri Haiti continua ad essere una terra dimenticata dal mondo se è vero che, da quando morirono oltre 300mila haitiani, la situazione non è affatto migliorata.
Vittime del sisma e della corruzione
Per Fiammetta Cappellini, responsabile dell’ong Avsi nella capitale Port-au-Prince, sembra proprio che «l’opinione pubblica non voglia sentir parlare di Haiti». Forse perché a pochi interessa un Paese che, pur essendo il più povero dell’emisfero occidentale e dove gran parte della popolazione sopravvive con due euro al giorno, è troppo lontano dal mondo che conta, ovvero da Stati Uniti, Europa ma anche da Cina e Russia. Ad Haiti non c’è il petrolio del Venezuela, né lo scontro geopolitico in atto in Siria e, dunque, quasi nessuno ne scrive, se non a inizio gennaio di quest’anno, in occasione del decennale del sisma. Subito dopo quel terremoto gli sfollati, oltre un milione, finirono ammassati nelle tendopoli, poi in rifugi temporanei, infine si spostarono moltissimi fuori dalla capitale. Il risultato, tuttavia, oggi è desolante se è vero che ancora 300mila persone sopravvivono ammassate su un terreno incolto a tre chilometri da Port-au-Prince. Qui hanno costruito un’immensa bidonville, dal nome biblico di Canaan, un vero e proprio inferno, un ammasso di catapecchie tirate su alla bell’e meglio con materiali di scarto recuperato dai crolli e senza fognature, acqua, elettricità. «Le condizioni sono disumane», lancia l’allarme Cappellini a Patrizia Caiffa dell’Agenzia Sir, aggiungendo che «se domani ci fosse un nuovo terremoto, farebbe il doppio dei morti. È una situazione che fa paura».Vittime del sisma e della corruzione.
Se il terremoto di dieci anni fa si fosse verificato in Giappone o in Cile non avrebbe ucciso quasi nessuno; sull’isola caraibica, invece, massacrò 316mila persone secondo le ultime cifre aggiornate e obbligò un milione e mezzo di haitiani a sfollare, oltre a ferirne altrettanti. La comunità internazionale e la Chiesa cattolica si mobilitarono subito e per i 10 milioni di haitiani furono raccolti oltre 10 miliardi di euro. Il problema, però, è che come sempre in quest’isola che 300 anni fa era il Paese più ricco delle Americhe, la corruzione la fece da padrone. Invece di partire dalla tragedia del 2010 per ricostruire il Paese, gran parte di quei fondi sparirono e oggi il 60% degli haitiani vive senza acqua potabile e centinaia di migliaia abitano in baracche di fortuna.
Come se non bastasse, poi, da inizio 2019 ad Haiti non c’è nessun governo, da gennaio neppure più un Parlamento e neanche una legge elettorale; e così adesso Moïse governa per decreto. Il problema è che invece di dare la precedenza all’emergenza in cui vive il popolo affamato, la sua priorità è quella di scrivere una nuova Costituzione per farla approvare con un referendum entro fine 2020. Lui è sicuro che questo «cambierà la percezione con cui il mondo guarda ad Haiti» ma non ha risposte per spiegare che fine abbiano fatto i 100 miliardi di euro di donazioni se non con cinque parole: «Corruzione, corruzione, corruzione, corruzione e ancora corruzione». Come se lui ne fosse immune e come se cambiare la massima legge dello Stato risolvesse qualche problema alla gente. Lo sanno bene in America Latina e nei Caraibi dove, negli ultimi due decenni, la moda è stata proprio quella di cambiare Costituzioni, soprattutto per consentire ai governanti di turno di mantenersi saldi al potere, mentre nulla è migliorato per i popoli, essendo ancora oggi questa parte di mondo la più diseguale e con maggiori poveri al mondo, insieme all’Africa.
L’epidemia di colera
Per l’insoddisfazione contro il malgoverno di Moïse, dalla seconda metà dello scorso anno, gli haitiani sono scesi in strada quasi ogni giorno per protestare contro la mancanza di acqua, di cibo e di una sanità degna di questo nome oltre, naturalmente, per il ritorno alla democrazia, visto che tenere chiuso un Parlamento, senza consentirne il rinnovo per via elettorale, è sicuramente un segnale di autoritarismo. Anche perché, quando venne eletto nel 2016 tra le denunce di frodi, Moïse ottenne solo il 21% dei suffragi e da quando sono iniziate le manifestazioni contro il suo autoritarismo, la Polizia ha già ucciso oltre 40 persone, tra cui donne e bambini.
Come se non bastasse, nella martoriata isola, dopo il terremoto ci fu un’epidemia di colera, malattia che era stata debellata dall’isola da oltre un secolo e, secondo molti, fu riportata ad Haiti dai Caschi Blu dell’Onu.
«Il colera è una malattia figlia per eccellenza della disuguaglianza che qui domina, poiché i casi e le morti sono concentrati in modo sproporzionato tra le persone più povere e vulnerabili, che non hanno accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari», spiega Carissa Etienne, direttore dell’Organizzazione Panamericana della Salute. L’epidemia di colera diffusasi nell’ottobre 2010 ha colpito quasi un milione di persone (820mila casi sino a novembre 2019), quasi il 10% della popolazione, mietendo oltre 10mila morti (9.792 quelli contabilizzati, ma molti non sono stati registrati). Inoltre ad Haiti ogni ora muoiono due bambini per malnutrizione e malattie curabili, il 70% delle persone non ha lavoro, un bambino su quattro non va a scuola e 265 figli sono nati dalle violenze su giovanissime haitiane per mano dei Caschi Blu delle Nazioni Unite, in missione umanitaria tra il 2004 e il 2017.
L’impegno di Caritas
Chi oltre all’Avsi non dimentica Haiti, però, c’è: la Caritas italiana, che con 221 progetti di solidarietà e un importo di 25 milioni di euro raccolti dalla Conferenza episcopale italiana, è molto attiva nella diocesi di Port-au-Prince; e la Fondazione Francesca Rava, che sotto la guida di padre Rick Frechette, arrivato qui in missione nel 1987, da 20 anni non ha mai smesso di occuparsi dei bambini haitiani con l’ospedale pediatrico Saint Damien e che grazie alle adozioni a distanza aiuta oltre settemila bambini. Ma ad Haiti ci sono anche i Camilliani, grazie alla stoica forza d’animo di padre Massimo Miroglio, da 15 anni alla guida di un progetto umanitario e socio-assistenziale tra la città di Jérémie e la capitale Port-au-Prince. E poi gli Scalabriniani che hanno costruito una serie di villaggi per chi aveva perso casa, le Piccole Missionarie del Vangelo e le religiose di Gesù Maria. Senza l’aiuto della Chiesa cattolica, insomma, ad Haiti sarebbe già scoppiata l’ennesima guerra civile.