Esiste un dono più grande del donare la vita? Eppure, agli occhi dei più, questa scelta viene vista come uno spreco.
Per chi ragiona secondo i criteri del mondo, il martirio è da perdenti. Ma i testimoni che in apertura di questa quarta giornata del Festival della Missione si sono confrontati alle Colonne di San Lorenzo a Milano, hanno evidenziato con forza e passione che l’amore risponde all’odio, che il martirio è un grandissimo segno che contraddistingue i cristiani.
Il primo testimone è stato padre Bernard Kinvi, camilliano, che come direttore dell’ospedale della missione di Bossemptélé (Repubblica Centrafricana) ha messo a rischio la sua vita per la salvezza di oltre 1.500 musulmani durante la guerra civile scoppiata nel 2013: «Quello che mi ha spinto è stato l’amore per la popolazione: quando è scoppiata la guerra non ho potuto ignorarla. Il nostro principio è stato quello di soccorrere e curare tutti, anche i ribelli, e questo ci ha permesso di poter tentare un dialogo con loro». In questo contesto padre Bernard è stato minacciato da uomini armati che, gridando il suo nome, cercavano di ucciderlo. Ma «sono riuscito a scappare e a mettermi in salvo nella boscaglia».
Coloro che ogni giorno mettono a repentaglio la propria vita sono anche le suore dell’ordine della Riparazione che vivono in Myanmar, dove il primo febbraio 2021 un colpo di stato della giunta militare ha gettato il Paese nella violenza e nel terrore. Ad oggi si contano tremila vittime, 900mila sfollati, 16mila arresti, 260 attacchi a scuole e personale educativo.
A raccontare ciò che sta accadendo è stata suor Beatrice Maw, una religiosa della congregazione con esperienza missionaria in Myanmar: «Le mie consorelle, 400 attive in 10 delle 16 diocesi del Paese, stanno fuggendo alla persecuzione e alle rappresaglie: al momento ci sono alcuni conventi chiusi completamente, proprio per evitare di subire attacchi». Anche i viveri provenienti dagli aiuti umanitari vengono bloccati e bruciati. «Ma quante vite ancora dovrà offrire il popolo birmano? Il Myanmar piange i suoi martiri», ha concluso.
Donare la vita accende i riflettori della società su persone che fino a quel momento non sono conosciute, nonostante il loro operato quotidiano fedele al servizio dell’umanità.
Lo ha sottolineato con forza Zakia Seddiki ricordando suo marito, l’ambasciatore Luca Attanasio: «Luca ha svolto il suo lavoro come una missione, con un’umanità e uno spirito di servizio e di solidarietà che nessuno conosceva prima della sua morte. Luca non è un santo, è un uomo normale. Ma aveva grandi valori e grande umanità». Chi dona la vita per gli altri accende i riflettori sul Paese e il contesto nel quale opera: «Senza la tragedia della morte di Luca, molti non avrebbero conosciuto le sofferenze che la popolazione vive».
Ai partecipanti al Festival ha aperto il suo cuore anche padre Pier Luigi Maccalli, missionario della SMA, rapito in Niger nel 2018 e rilasciato in Mali nel 2020: «Durante la mia prigionia e nel periodo successivo mi sono fatto delle domande che riassumono la mia esperienza. Ero al posto sbagliato nel momento sbagliato? No, ero al posto giusto con la mia gente, perché il posto del missionario è stare con la propria gente». E poi, pensando a Gesù che dice di amare i propri nemici, si è chiesto: «Come faccio ad amare chi mi ha rapito e incatenato, proprio come amo la mia gente? Questo è stato un grande travaglio interiore. Poi mi ha risuonato dentro: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. E li ho perdonati nel profondo del cuore».
A concludere le testimonianze sul dono di vita e il martirio, anche monsignor Christian Carlassare, missionario comboniano e vescovo di Rumbek in Sud Sudan. Nel 2021 ha subito un attentato, ma – ha voluto ricordare – «nello stesso giorno in cui sono stato vittima di un agguato, due donne sudsudanesi sono state uccise mentre andavano in ospedale a partorire. Di me si parlava, ma di loro no. Ho pensato che ogni vita conta. Ciò che avevo vissuto – continua il vescovo missionario – poteva portare alla luce ciò che stava accadendo in quella parte di mondo».
Con l’immensità di ricchezza, umanità e gratuità raccontata dai 150 testimoni intervenuti nei quattro giorni di Festival di Milano, il mondo missionario è senza dubbio entrato nel cuore della città e di tutti coloro che per la prima volta si sono trovati ad ascoltare la missione in piazza.