Asmae Dachan e Miriam Camerini: giornalista e scrittrice italo-siriana la prima, regista teatrale, attrice e studiosa di ebraismo la seconda.
Due donne, una di religione islamica e l’altra ebraica (Miriam studia a Gerusalemme per diventare rabbina) che riflettono assieme sul concetto di cura e di dono.
Di dare e ricevere, di mettersi a servizio, uscendo da sè per cercare idealmente la “Terra promessa”.
Un dialogo interreligioso potente, quello di oggi pomeriggio sul palco del Comigi, moderato dal domenicano padre Claudio Monge, missionario ad Istanbul.
“Durante la pandemia abbiamo fatto brutalmente i conti con un pesante senso del limite, con la ‘bara’ del nostro quotidiano – ha detto Monge – Ad Istanbul dove vivo, tutto era fuori controllo, dovevo entrare in contatto con i cercatori di speranza. E ho trovato i miei fratelli di religione islamica”.
E ancora: “il tempo della cura inizia quando la smettiamo di credere di essere le uniche vittime della Storia; quando abbandoniamo l’idea dell’esclusiva, del copyright della sofferenza e iniziamo a camminare assieme agli altri”.
“Io mi sono chiesta: cosa posso fare in questo frangente? Sono nata con la penna, scrivo, sono una giornalista, mi occupo di guerra e diritti umani”, si è detta Asma, trovando nella scrittura una strada di redenzione e cura.
Per Miriam, che vive e lavora tra Milano e Gerusalemme, la chiamata è un “prendere e un dare, un uscire da se stessi e dalla propria Gerusalemme, il centro del mondo, per raggiungere la periferia e viceversa”.
“Mi chiedo come eravamo prima di questa pandemia e cosa vogliamo essere oggi. Sono certa che noi non vogliamo tornare a prima del febbraio 2020 – ha detto ancora Camerini proseguendo con la metafora biblica – ma uscire dall’Egitto per entrare nella Terra promessa”.
Come farlo sta alla capacità di ognuno: la sfida è quella di guardare oltre l’ostacolo, reinterpretare un esodo come popolo nuovo.