Non è certo prerogativa dei soli laici missionari fidei donum la testimonianza della fedeltà al Vangelo sostenuta anche da princìpi di ordine civile quali, ad esempio, quelli sanciti dalla Costituzione della Repubblica italiana, oppure dalla Dichiarazione universale dei Diritti Umani dell’Onu, ma può diventare una specifica esigenza nel lavoro ordinario di ogni missionario impegnato in contesti sociali e politici in cui tali principi vengono sistematicamente e impunemente ignorati e calpestati.
Ogni anno, il 24 marzo, celebriamo la Giornata di preghiera e digiuno per i missionari martiri, cioè dei preti, religiosi, religiose e laici che hanno pagato con la vita il loro impegno evangelico a favore dei più indifesi: farne memoria è, dunque, un dovere che non si ferma al solo contesto religioso ma si estende all’intera società civile sensibile alla difesa dei diritti fondamentali di ogni persona, a cominciare dal diritto alla libertà religiosa.
Anche i laici missionari sono, perciò, parte attiva in questo compito di esprimere, con la propria testimonianza di vita all’insegna del Vangelo, la fedeltà anche ai valori fondanti la convivenza pacifica tra le comunità umane. Per realizzare questo “mandato” vien da sé che ogni attività missionaria, di annuncio e testimonianza, sia orientata alla giustizia sociale, utilizzando gli strumenti pastorali indicati dalla Dottrina sociale della Chiesa. Non è un manuale per provetti rivoluzionari, ma un compendio magisteriale che sostiene le ragioni di quanti vivono la loro vocazione battesimale portando, senza protagonismi, segni di speranza soprattutto in quelle “periferie geografiche ed esistenziali” abbandonate alla povertà e alla miseria più estreme.
Se è vero che, come recita un famoso detto popolare, “l’abito non fa il monaco”, è altrettanto vero che il ruolo del missionario, prete fidei donum o religioso/a che sia, in terra di missione è sicuramente più riconosciuto a livello istituzionale che non quello del laico e della laica missionari. E da qui possono sorgere anche diversità di trattamento da parte delle autorità locali nei confronti dei laici, rispetto ai religiosi, che si “espongono” nel portare avanti iniziative di carattere sociale, specialmente quando non vengono adeguatamente condivisi con gli altri missionari i contenuti e le modalità con cui realizzare le diverse iniziative a loro affidate.
Ricordo, a questo proposito, un aneddoto della mia primordiale esperienza di volontariato internazionale in Etiopia, quando da poco imperava il negus rosso Menghistu Hailemariam e la guerra civile in Eritrea (allora parte integrante dell’Etiopia) infuriava, costringendo il regime di Addis Abeba ad una chiamata alle armi di molti giovani in età utile all’arruolamento.
Era verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso, e mi trovavo con altri tre volontari (una di loro Anita, mia moglie) nel paesino di Mendida, sull’altipiano centrale, per condurre una piccola scuola tecnica messa in piedi dai monaci del vicino monastero cistercense, per i giovani delle aree rurali circostanti. Mentre in altre regioni del Paese grande quattro volte l’Italia, le autorità locali in diversi casi avevano provveduto con la forza a farsi consegnare i mezzi di trasporto delle missioni per portare al fronte i combattenti appena arruolati, nel nostro caso il sindaco-podestà, mi convocò per chiedermi con decisione, ma educatamente, di utilizzare il pick-up della scuola tecnica per trasportare le reclute “volontarie” fino alla città più vicina, che dista circa una trentina di chilometri da Mendida, da dove sarebbero poi stati raccolti da altri mezzi più capienti. La mia risposta quasi impulsiva, benché consapevole delle pesanti conseguenze a cui potevo andare incontro, fu un secco “no”, subito giustificato dal fatto che l’auto era di proprietà della scuola e quindi la responsabilità del suo utilizzo dipendeva dal monastero e che, inoltre, io mi trovavo in quel posto come volontario italiano in sostituzione al servizio militare (allora c’era ancora la leva obbligatoria in Italia) e quindi per me il trasporto di truppe, anche se non armate, contrastava con le finalità per le quali svolgevo il mio servizio di volontariato (e ancor più con l’essere laico missionario fidei donum, dato che insieme ad Anita prima della partenza avevamo ricevuto il “mandato istituzionale” dal nostro vescovo, mons. Giuseppe Carraro).
A quel punto, con tono indispettito, anche se sempre nei limiti della correttezza, fui invitato ad uscire dall’ufficio e venne chiamato il priore del monastero perché potesse fare opera di convincimento nei miei confronti, dato che parlava anche un ottimo italiano pur essendo di origine eritrea. Ma neppure la mediazione di abba Stefanos, il priore, persona saggia e comprensiva, riuscì a convincermi, al punto che si stava rischiando un pericoloso atto di forza da parte delle autorità locali, con conseguenze imprevedibili per noi volontari e per il monastero, dato il clima generale di forte tensione sociale.
La cosa che più fece imbufalire il sindaco e i suoi “consiglieri politici” fu una mia affermazione a riguardo della disponibilità di altri mezzi pubblici, anche se in realtà sapevo che il governo aveva già provveduto a requisire autobus e camion pubblici e privati in funzione della campagna bellica. Successe, però, che proprio mentre stava montando la tensione, nonostante l’encomiabile opera di mediazione di padre-abba Stefanos, a causa della mia insistenza sulla possibilità di trovare un mezzo anche più capiente alternativo all’auto della scuola tecnica, davanti alla sala del municipio in cui si stava tenendo il nostro incontro a porte aperte (nel senso che, non essendoci energia elettrica, la luce nel locale entrava solo attraverso la porta d’ingresso spalancata) giunse per caso, fermandosi proprio lì in bella vista, un Loncin (il Leoncino era all’epoca il più famoso ed utilizzato pulmino, di fabbricazione italiana, con portata, solo nominale, di poco più di una ventina di persone, pur trasportandone sempre “comodamente” oltre il doppio), completamente vuoto! A quel punto, colti tutti, io per primo, dallo stupore per una concomitanza che forse poteva essere spiegata solamente con l’intervento di qualche “forza superiore” (convinzione che parve davvero trasparire dagli sguardi impietriti dei presenti), venni rapidamente congedato assieme al paziente abba Stefanos. E quella storia fini lì.
Non so se in quel frangente fosse prevalsa la fede religiosa dell’amministratore (di tradizione cristiana ortodossa), che pure ostentava sulla sua scrivania e sulle pareti del suo modesto ufficio i simboli e gli slogan del materialismo marxista-leninista a cui inneggiava il regime del Derg (la giunta militare guidata da Menghistu), o più semplicemente la sua razionalità davanti ad una mia esuberante ed incosciente testardaggine; sta di fatto che da allora, per diverso tempo circolò quell’aneddoto tra la gente del paese e nel monastero cistercense, come se quel Loncin fosse letteralmente caduto dal cielo.
Tutto questo per dire che se ai laici missionari è affidato il compito specifico di annunciare il vangelo attraverso le opere sociali, non è però concesso loro di astenersi dal dare ragione di quelle opere, non solo sul piano tecnico-professionale, ovviamente, ma anche dei valori che sorreggono il lavoro che i laici missionari fidei donum svolgono come cristiani e come cittadini a tutela della dignità e dei diritti universalmente riconosciuti di ogni persona, consapevoli di essere comunque “ospiti” e “stranieri”.