Per lui il Sinodo per la regione Panamazzonica non è finito. Anzi, come Padre sinodale e membro del Consiglio speciale che si occuperà nei prossimi mesi di esaminare e mettere in pratica gli orientamenti emersi, si può dire che il suo lavoro sia praticamente cominciato da poco. Monsignor Eugenio Coter, vescovo di Pando in Bolivia, è un missionario inculturato e parla dell’Amazzonia come della sua terra. Nato a Gazzaniga nel bergamasco, nel 1991 parte come fidei donum per la Bolivia, dove per molti anni è parroco a Cochabamba; poi nel febbraio 2013 viene nominato vescovo di Tibiuca e vicario apostolico di Pando, la diocesi di cui è vescovo dall’aprile 2013. Nel novembre 2015 è nominato presidente di Caritas Bolivia e nel marzo 2018 è chiamato da papa Francesco a far parte del Consiglio presinodale. Da quasi 30 anni è in America Latina e l’Amazzonia è certamente una parte importante della sua vita: «Sono in Amazzonia da più di sei anni, nella zona più profonda in territorio boliviano, al confine col Perù. L’Amazzonia ti entra nel sangue perché incontri gente che vive a contatto con la natura con grande semplicità e dove le relazioni umane sono molto più essenziali. Ci sono circa 400 comunità sparse sul territorio che è grande quanto un terzo della nostra penisola italiana dove vivono 70mila persone. Mi muovo per visitarle, in genere due volte all’anno vado lungo i fiumi con la barca: mi accompagnano un catechista che pilota e la suora che segue costantemente le comunità. Una piccola équipe in una barca di 15 metri, fatta come un camper galleggiante, carico di viveri, generi di prima necessità e soprattutto acqua».

Le comunità aspettano con ansia l’arrivo del loro vescovo, una festa e un momento di incontro importante. «Si arriva al mattino presto e poi alla sera ci fermiamo presso un’altra comunità. Si ascoltano i problemi della gente, si confessa, incontriamo il catechista, l’educatore; la suora intanto visita le famiglie e alla sera, quando i contadini rientrano dai loro appezzamenti al villaggio, celebriamo la messa e condividiamo la cena. E poi, a seconda delle condizioni del tempo, torniamo in barca e ripartiamo navigando. A volte si naviga di notte e ci si ferma in rada, legati ad un albero sulla riva. Una volta la suora, che è veramente una grande figura, ha legato la fune ad un albero, senza accorgersi che proprio accanto alla nostra barca c’era un coccodrillo di tre metri addormentato».

Immagini di una missione in frontiera dove la gente dice al vescovo: «Venite a pregare insieme a noi. Siamo contenti di vedere che a qualcuno interessiamo. Se non venite voi qui non arrivano nemmeno i politici a chiedere voti prima delle elezioni, perché siamo troppo pochi e lontani». Alcuni gruppi etnici sono più lontani degli altri. Sono i circa 150 Popoli indigeni in isolamento volontario (Piiv) che hanno scelto di non entrare in contatto con lo stile di vita moderno, di cui la Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) protegge i diritti contenuti nella “Dichiarazione in difesa dei Popoli indigeni in isolamento volontario”. Monsignor Coter non è direttamente in contatto con questi gruppi, anche se nella sua zona esiste l’etnia dei Taramona, che si è isolata oltre 50 anni fa. Ricorda di avere incontrato dei familiari rimasti al villaggio: «Li ho incontrati circa cinque anni fa e mi hanno invitato a raggiungere la comunità da cui erano partiti originariamente. Erano indigeni dell’Amazzonia, e quando sulle loro terre sono arrivati i Kecia e gli Aymara, le due più grandi etnie boliviane, gli indigeni inizialmente li hanno accolti, lasciando che costruissero le loro capanne. Quando i nuovi arrivati hanno cominciato a buttare giù ettari di bosco, a incendiare i terreni, a seminare riso, gli indigeni che gestivano i territori in un’altra maniera, hanno capito che sarebbero morti se fossero rimasti in quelle condizioni e quindi in una notte sono partiti. Hanno risalito un fiume per una settimana con le canoe e si sono fermati nella foresta più fitta».

Cosa fa la Chiesa in queste circostanze? «Secondo le leggi internazionali che li proteggono – spiega il presule – non possiamo entrare in contatto con loro, ma le incursioni dei cercatori d’oro, dei costruttori di strade, dei trafficanti di legnami continuano. Proprio in questa zona il governo ha voluto attraversare il loro territorio con una strada, e agli operai che lavoravano sulle ruspe gli sono fischiate le frecce vicino alle orecchie, fino a quando non hanno abbandonato il campo. Non si sa quanti siano, e ci sono molti problemi sul piano sanitario per entrare in contatto con loro, perché possiamo essere portatori di malattie nei confronti delle quali loro non hanno difese». Ma la Chiesa cosa fa rispetto all’evangelizzazione? «Non è semplice nei confronti dei popoli in isolamento volontario, dal punto di vista legale e da quello teologico. Qualcuno dei familiari può tentare di inoltrarsi a riprendere un contatto ed eventualmente aprire una porta per andare ad incontrarli. Ma sempre facendo attenzione anche a non aprire, seppur involontariamente, la strada a chi vuole entrare per sfruttare le loro terre».

Rivoluzione Amazzonia

Missione, ecologia integrale, difesa dei popoli indigeni, ruolo della donna e nuovi ministeri, soprattutto in zone in cui è difficile l’accesso all’eucaristia: questi i temi al centro del Documento finale del Sinodo per la regione Panamazzonica. Il testo che sintetizza il lavoro dei Padri sinodali è suddiviso in cinque capitoli che hanno come fil rouge l’impegno ad una conversione integrale sul piano ecologico, culturale e pastorale.

Il primo dei cinque punti in cui è articolato il testo sottolinea come solo una radicale conversione porterà la Chiesa ad essere “in uscita” e vicina ai popoli della regione. L’attenzione all’uomo e al Creato è espressione di un’unica missione che concretamente si impegna in una pastorale transfrontaliera contro le speculazioni economiche, la tratta di esseri umani, lo spostamento forzato di intere famiglie verso le città. Il secondo capitolo entra nello specifico della conversione pastorale, sottolineando che «la missione non è qualcosa di facoltativo, perché l’azione missionaria è il paradigma di tutta l’opera della Chiesa». Ricordando l’esempio dei martiri che hanno testimoniato con la vita l’amore per il Vangelo, viene ribadita l’importanza di una pastorale indigena capace di dare nuovo impulso alle vocazioni autoctone, perché «l’Amazzonia deve essere evangelizzata anche dagli amazzonici». Nella terza parte viene approfondita la necessità dell’inculturazione e dell’interculturalità che devono portare il cristiano ad andare verso l’altro e ad imparare da lui. I valori dei popoli autoctoni sono infatti una grande risorsa a cui l’uomo moderno deve attingere: solidarietà, senso della comunità e reciprocità sono la legge che da millenni è rimasta intatta tra persone oggi minacciate da interessi e speculazioni economiche. «La difesa della terra non ha altro scopo che la difesa della vita» ed è arrivato il momento storico in cui gli Stati, anziché essere una minaccia, tutelino i diritti e l’inviolabilità dei territori delle popolazioni locali. La Chiesa deve evitare le tentazioni di una “teologia colonialista” e, nell’ottica di valorizzare le culture locali, il documento propone che sia portatrice di un progetto culturale complessivo e favorisca l’apertura di centri di studio delle tradizioni dei popoli indigeni. Il penultimo capitolo spiega perché è arrivata l’ora della “conversione ecologica” e come la profonda interconnessione di tutto il Creato debba diventare il cammino possibile per uno sviluppo giusto e solidale. L’ecologia integrale deve essere intesa come l’unico cammino possibile per salvare la regione dall’estrattivismo predatorio, dallo spargimento di sangue innocente e dalla criminalizzazione dei difensori dell’Amazzonia. L’ultimo capitolo è dedicato alla conversione sinodale ed è quello più denso di indicazioni in cui si guarda al superamento del clericalismo e alla fondazione di una nuova cultura del dialogo, con un ruolo attivo dei laici – in virtù del loro battesimo – nella ministerialità. Con “audacia evangelica”, la partecipazione del laicato, sia nella consultazione che nella presa di decisioni nella vita e missione della Chiesa, «va rafforzata a e ampliata a partire dalla promozione e dal conferimento di ministeri a uomini e donne in modo equo», in condizioni in cui «il vescovo può affidare, con un mandato a tempo determinato, in assenza di sacerdoti, l’esercizio della cura pastorale delle comunità ad una persona non investita del carattere sacerdotale, che sia membro della comunità stessa». In questi nuovi orizzonti, il ruolo delle donne cambia e viene ribadita la necessità del diaconato permanente femminile. Il diaconato permanente di uomini e donne adeguatamente formati è infatti il modo per garantire la celebrazione dei sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica.