Papa Francesco lo aveva chiesto durante l’Angelus di domenica scorsa, pregando per la pace: «chiamo tutte le parti a mantenere accesa la fiamma del dialogo e dell’autocontrollo – aveva detto – e di scongiurare l’ombra dell’inimicizia».
E proprio l’autocontrollo evocato dal pontefice, in queste ore di forte tensione tra Iran e Stati Uniti, riecheggia come parola chiave per capire come si evolverà lo scenario mediorientale e se la moderazione avrà la meglio sulla volontà di potenza.
«In tante parti del mondo si sente la terribile aria di tensione, la guerra porta solo morte e distruzione, Preghiamo in silenzio perché il Signore ci dia questa grazia», sono ancora le parole del Papa.
La reazione iraniana all’aggressione americana del 3 gennaio scorso, in realtà, non si è fatta attendere molto: stanotte la base militare americana di Ain al-Asad, nella provincia di Anbar in Iraq, è stata colpita da 22 missili iraniani. Stando a quanto confermato dal presidente Donald Trump, non ci sarebbero vittime tra i soldati americani, il che fa supporre che gli Usa non reagiranno. Dunque il raid di questa notte potrebbe anche chiudere qui la partita, facendo ritenere sufficiente all’Iran questa misura per vendicare la morte del generale iraniano Soleimani.
«La risposta iraniana era prevedibile – scrive Pierre Haski su France Inter – Politicamente ed emotivamente, il regime iraniano non poteva permettersi di non reagire a un atto provocatorio come l’eliminazione del suo principale comandante. Ne andava del suo prestigio e della sua autorità, sia all’interno dei confini che negli stati “clienti” della regione».
I fatti sono questi: ieri attorno alle 23 (la stessa ora in cui Soleimani è stato colpito e ucciso da un drone americano) 22 missili hanno raggiunto la base Usa in Iraq, senza colpire soldati Usa, ma molto probabilmente colpendo dei civili iracheni.
Un’azione puntuale e immediata che la propaganda iraniana ha provveduto immediatamente ad ingigantire agli occhi del mondo (e del suo popolo) parlando di 80 vittime. Il leader supremo Ayatollah Ali Khamenei si è affrettato a definirlo «uno schiaffo in faccia» agli Stati Uniti.
«La notte scorsa – ha detto l’Ayatollah Khamenei in un discorso pronunciato di fronte ad una immensa folla a Teheran – li abbiamo colpiti in faccia. Quel che è importante è che la presenza corrotta degli Stati Uniti in questa regione sia giunta al termine».
La richiesta dell’Iran è infatti che gli Stati Uniti pongano fine alla loro decennale presenza nel Paese.
Subito dopo lo strike di questa notte, come riporta Al Jazeera, il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha dichiarato in un post su Twitter: «Non cerchiamo una escalation o una guerra, ma ci difenderemo contro ogni possibile aggressione».
E ancora: l’Iran «ha preso misure proporzionate in virtù dell’auto-difesa», citando l’articolo 51 della carta delle Nazioni Unite.
L’auspicio è che il confronto tra le due potenze si fermi qui, e che l’attacco di questa notte rappresenti davvero un’azione dimostrativa difronte alle migliaia di sostenitori del generale ucciso, piuttosto che il primo di una lunga serie di botta e risposta che innescherebbero una escalation militare.
Foto: Una manifestazione di pacifisti a San Diego, negli Usa, il 4 gennaio scorso. Cns foto.