Dopo 21 giorni di discussioni, dibattiti ma soprattutto ascolto dei quasi 200 padri sinodali, e tra questi cardinali prefetti di Congregazioni vaticane, vescovi latinoamericani, delegati, rappresentanti delle popolazioni indigene, il Sinodo per l’Amazzonia è arrivato alla fine sabato 26 ottobre scorso con la votazione del documento finale, che ha scontentato gli schieramenti, ma forse proprio per questo rappresenta la base di partenza più giusta e onesta per il cammino più complesso, quello post sinodale.
Il Sinodo è iniziato due anni fa, nel gennaio 2018 con la visita di papa Francesco a Puerto Maldonado davanti alle popolazioni indigene, e lungo il percorso di preparazione sono state ascoltate 87000 persone: un lavoro forse mai fatto prima, di ascolto, di sinodalità e partecipazione a partire dal basso. E contemporaneamente la costituzione della REPAM, la rete ecclesiale panamazzonica, il vero motore di questa assise.
Il primo successo di questo Sinodo è stato vedere chi varcava la soglia dell’aula Paolo VI per raggiungere la sala sinodale.
A partire da papa Francesco, sempre presente ai lavori, che dava la mano e il buongiorno anche alla guardia svizzera che scattava sull’attenti obbligandola a rompere il severo protocollo, per arrivare ai vescovi con le facce cotte dal sole e da viaggi estenuanti sui fiumi, che hanno assunto anche nel loro modo di vestire sobrio un patto con le popolazioni che guidano.
E poi loro, gli indigeni con le loro piume e le facce pitturate, che Francesco al primo ghigno le ha subito sdoganate: ”Che differenza c’è tra queste piume e i tricorni portati dai nostri curiali?”.
Papa Francesco ha dato la linea fin dal primo giorno: “Non c’è un sinodo dentro e uno fuori”. Come dire lasciamo le dietrologie, gli schieramenti e liberiamo l’ascolto. Così è avvenuto, hanno detto i padri sinodali.
Un ascolto sereno, franco, vero. Sia da parte di chi l’Amazzonia l’ha vista poco, come i rappresentanti della curia o di altre esperienze pastorali in altre parti del mondo, sia da chi in Amazzonia ci vive davvero, ma essendo l’Amazzonia grande come l’Europa, hanno posizioni differenti, e soprattutto non si erano mai incontrati prima assieme.
E questo è il secondo grande successo di questo Sinodo: per la prima volta vescovi, indigeni, operatori pastorali, missionari che lavorano in Amazzonia per 21 giorni hanno discusso assieme, ascoltato, pregato.
In assemblea o nei circoli minori. Per la prima volta! Il titolo di questo Sinodo speciale è impegnativo: “Amazzonia: nuovi cammini per la chiesa e per una ecologia integrale”.
Due le piste: evangelizzare con nuova efficacia l’Amazzonia, andare verso una decisa svolta ecologista della chiesa. Che non vuol dire abbracciare Greenpeace, come sostiene qualcuno, ma il vangelo di Gesù Cristo collocandolo nella dimensione cercata già da s. Francesco, il Creato.
L’orizzonte del lavoro è stata da un lato l’enciclica Laudato Si’, dall’altro l’Istrumentum laboris frutto di una articolazione che davvero è arrivata alla più sperduta aldea della foresta amazzonica.
Attorno all’aula sinodale nelle tre settimane romane la REPAM ha organizzato una serie di eventi: dalla Casa Comune organizzata dagli istituti missionari, alla via crucis dei martiri, fino al “Patto delle Catacombe per la casa comune”, firmato all’alba di domenica 20 ottobre scorso nelle catacombe di Domitilla da molti padri sinodali. Il documento finale chiude una fase del processo, ne apre altre.
Riprende i temi già strutturati nella Laudato Si’ e nell’Istrumentum Laboris: 17% dell’Amazzonia già compromesso dalla deforestazione, e con questa i cambiamenti climatici, l’inquinamento, la degenerazione del concetto di sviluppo.
Anche il documento finale parla ampiamente dell’estrattivismo predatorio che risponde alla logica dell’avidità del paradigma tecnocratico dominante. La chiesa una volta per tutte è chiamata a dire da che parte sta. E una volta detto questo, come lo ha detto chiaramente in questo Sinodo, deve essere conseguente.
La chiesa è alleata delle popolazioni indigene, quindi sta alla parte opposta al modello economico dell’idolatria del denaro, del profitto a tutti i costi, che distruggendo l’Amazzonia calpesta il futuro di tutti, non solo delle comunità indigene.
Tutto è interconnesso, e non c’è futuro alternativo a stili di vita più sobri e sostenibili. La deforestazione, l’estrattivismo selvaggio e incontrollato porta impoverimento, inquinamento, violenza, migrazione. Un ciclo perverso che le popolazioni indigene chiedono di fermare e alla chiesa di stare dalla loro parte.
Come essere presenti in Amazzonia? Su questa domanda il Sinodo ha affrontato la seconda parte del suo tema. Da una pastorale della visita, ad una pastorale della presenza. E’ questo l’obiettivo. Oggi il prete, il missionario può visitare le comunità nemmeno una volta l’anno: ne ha troppe, sono distanze enormi, c’è carenza di sacerdoti.
E quella volta che visita celebra i sacramenti, l’eucaristia, e poi se ne va. Le comunità rimangono, spesso guidate da donne che le amministrano e portano avanti le varie pastorali. Questo modello non è sufficiente, soprattutto non è adeguato alla realtà. Le chiese evangeliche, per contro, hanno tutte il loro pastore (uomo o donna) e attorno a queste figure fioriscono le comunità.
I cattolici devono aggregarsi attorno all’eucaristia, così afferma con forza il Vaticano II.
E’ l’eucaristia che fa la chiesa, la comunità. Si ma come farla se l’eucaristia le comunità dell’Amazzonia la possono ricevere una volta l’anno? Ecco quindi il dibattito sui nuovi ministeri.
Il diaconato delle donne, chiesto a gran voce dalla base interpellata per arrivare all’Istrumentum Laboris, è un tema sul quale si continuerà un cammino già iniziato con una commissione di studio che sta valutando le varie posizioni teologiche e le varie implicanze pastorali. Il documento finale riconoscendo il valore insostituibile delle donne nelle comunità amazzoniche, chiede per loro la possibilità dell’accolitato e del lettorato, spingendole verso il ministero di “dirigenti di comunità”.
Per facilitare l’accesso all’eucaristia i padri sinodali propongono al Papa l’apertura del sacerdozio a diaconi permanenti anche con famiglia legittimamente costituita e stabile, “per sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica”.
Erano questi due i punti sui quali i padri sinodali partivano da posizioni molto distanti e sui quali c’è stato maggiore scarto nella votazione.
Ma papa Francesco ancora una volta, nell’ultima congregazione generale di sabato 26 ottobre, dopo la votazione finale del documento, nel suo discorso concluso a braccio ha invitato tutti, anche gli stessi giornalisti, a vedere i processi messi in atto da questo Sinodo, a guardare “la diagnostica”, ovvero il contesto, più che fissarsi sui singoli punti abbandonando l’insieme.
Chi fa questo corre il pericolo già descritto dal poeta Michael Peguy, che papa Francesco ha citato: “Perché non hanno il coraggio di appartenere alla natura umana, pensano di essere della grazia divina. Perché non hanno il coraggio di vivere nel tempo, pensano di essere ormai penetrati nell’eterno. Perché non hanno il coraggio di essere nel mondo, pensano di essere in Dio. Perché non amano nessuno, pensano di amare Dio.”