Nel 1601 il gesuita Matteo Ricci, matematico e geografo, riesce finalmente ad entrare a Pechino. La sua missione in Cina sarà favorita dalla grande conoscenza scientifica: Ricci affascinò l’imperatore della Dinastia Ming almeno quanto la cultura cinese affascinò lui.

Eccoci giunti al cuore pulsante della missione cristiana in terre lontane: in questa sesta puntata della nostra storia della missione andremo nell’Estremo Oriente a conoscere meglio la figura e l’opera di uno straordinario gesuita: il matematico Matteo Ricci.

Uomo di enorme cultura ed intelligenza, teologo poliglotta, che seppe affascinare la Cina almeno quanto la Cina affascinò lui. Il fascino inziale esercitato dalle scoperte scientifiche europee fu la chiave di volta del successo di Matteo Ricci presso il complesso mondo della Dinastia Ming.

Nato a Macerata il 6 ottobre 1552 e morto a Pechino l’11 maggio 1610, Ricci è stato un geografo e scienziato gesuita, oltre che naturalmente un missionario esploratore, che usò l’intelletto per penetrare la cortina di fumo cinese ed entrare definitivamente nei cuori dei governanti mandarini.

Dalla testa all’anima: per evangelizzare Matteo doveva tradurre la scienza in qualcos’altro e rendere accessibile il Vangelo ai rappresentanti cinesi, impresa quanto mai delicata in una terra dedita al confucianesimo.

La Cina è un altro mondo, e questo Matteo Ricci sembra fin dall’inizio comprenderlo molto bene.

In una lettera al confratello Girolamo Costa afferma che la Cina è un regno diversissimo da tutti gli altri «è l’unico altro mondo parallelo e anche alternativo al mondo cristiano europeo».

In effetti non era solo la distanza geografica a separare Roma da Pechino: a distinguere i due emisferi era una differente mappatura mentale, una forma mentis che seguiva vie alternative.

Ricci questa diversità la comprese talmente a fondo da individuare quattro vie di accesso nella Cina del 1600, come scrive il gesuita Francesco Occhetta: la lingua e la cultura locale, il «complesso sistema sociale che tiene unito l’Impero» e «l’influenza sull’Imperatore e sui suoi Mandarini (la testa) per poter parlare a tutto il popolo (il corpo)».

«Quando Ricci – dice ancora padre Occhetta – offre ai mandarini orologi, prismi veneziani, cartografia e mappamondi, libri (la Bibbia Poliglotta di Aversa, rilegata in oro), stampe di città europee, dipinti con prospettiva, non faceva doni per propiziarsi amicizie, ma offriva esempi della cultura europea, fino alla geometria di Euclide e all’astronomia».

Ma che storia aveva Matteo Ricci e perché scelse proprio l’Oriente? Matteo nasce da una nobile famiglia di Macerata, primo di 13 figli: nel 1561, a nove anni, inizia gli studi nella scuola dei gesuiti, mentre aiuta il padre farmacista che lo vuole avvocato.

Nel 1571 entra nel noviziato dei gesuiti a Sant’Andrea al Quirinale a Roma, interrompendo gli studi di giurisprudenza e dedicandosi alla filosofia e alla teologia. Intraprende anche studi scientifici, di astronomia, geografia, cosmologia e in particolare di matematica.

Entra ben presto nella Compagnia di Gesù dove padre Alessandro Valignano, visitatore generale delle missioni dei Gesuiti in Oriente, è incaricato della preparazione di alcuni missionari per una spedizione cattolica in Cina. Padre Ricci è uno dei candidati migliori per quell’impresa niente affatto scontata: già altri prima di lui avevano tentato senza successo una permanenza in Cina.

Quando nel 1582 Matteo arriva a Macao, ha 30 anni, è vestito da bonzo, ha il capo rasato ed è accompagnato dal confratello Michele Ruggeri. Macao però resta a lungo la sua meta finale a causa dell’interdizione della Cina agli stranieri: Ricci e il confratello non si scoraggiano e si dedicano per oltre dieci anni all’apprendimento della lingua e degli usi cinesi.

Nel 1598 tenta ancora di raggiungere Pechino, ma deve rientrare subito a Nanchino dove rimane fino al 1601. «Confrontando il cristianesimo con le tradizioni del confucianesimo- spiega monsignor Claudio Giuliodori in un suo scritto – Matteo comprende che il popolo cinese ha una grandissima tradizione secolare, che è geloso della sua cultura, lingua, tradizioni. Il gesuita non si pone mai in un atteggiamento di conquista culturale o religiosa».

Anzi: cresce e si rafforza in lui il legame con la classe colta e con le schiere governative cinesi, tanto che proprio grazie al rispetto di cui gode, viene raccomandato finalmente nel 1601 per il suo ingresso a Pechino, capitale del “Regno di Mezzo”, alla Corte Imperiale di Wanli.

Convocato dal governatore di Zhaoqing si presenta insieme al suo compagno come un religioso al servizio di «Iddio Signore del Cielo, venuto dalla ultime parti dell’Occidente» per poter fare «una casetta e una chiesuola» dove stare sino alla morte.

E così gli viene concesso di fondare una chiesa (sostenuta a spese dell’erario) ma la sua fama di intellettuale è quasi più forte di quella di teologo, e viene introdotto nella cerchia dei più importanti funzionari imperiali.

Si può ritenere che Matteo Ricci si limitasse intenzionalmente nell’esporre tutti i misteri della fede cristiana, come lui stesso scrive in una lettera del 1596: aveva adottato questa condotta limitandosi a esporre i dogmi fondamentali, o una sorta di “credo minimo”, per favorire quanto più possibile la percezione di una sostanziale identità di vedute riguardo al principio di tutte le cose.

Le principali novità introdotte riguardo all’idea di Dio insegnate da Ricci, riguardavano la creazione del mondo, l’immortalità dell’anima e il giudizio finale.

La sua prima opera in cinese è “Il trattato sull’amicizia”, nel quale sono raccolti i detti più famosi della letteratura classica occidentale. Questo concentrato di sapienza sull’amicizia impressionò molto i cinesi e ruppe chiusure e pregiudizi nei confronti degli stranieri.

Ma la missione evangelica di Ricci non poteva di certo esaurirsi con la sociologia: come fa giustamente notare padre Bernardo Cervellera, direttore di Asia News: «non si parla del motivo per cui Ricci ha fatto tutto questo: l’amore cristiano verso il popolo cinese, il desiderio che esso conoscesse la persona del Salvatore».

Solo negli ultimi anni, rari studiosi dell’Accademia delle Scienze di Pechino mostrano il sottofondo religioso come la ragione ultima di tutto l’impegno di Matteo Ricci a favore della Cina: «Grazie a Ricci vi è il tentativo di mostrare il cristianesimo come il compimento della religiosità cinese e la morale cristiana come il perfezionamento della morale “confuciana”» scrive Cervellera.

La presenza dei Gesuiti e il benvolere degli imperatori porterà la comunità cristiana di Pechino fino a oltre 100mila fedeli nel corso del XVIII secolo.

Dopo accadde che «l’ incomprensione del metodo di “inculturazione” usato dai Gesuiti portò alla proibizione ai cristiani di partecipare ai riti in onore dei defunti e di Confucio (“bolle papali” del 1715 e 1742, sollecitate dai Francescani).

Quando Li Ma Dou, così veniva chiamato Ricci in Cina, muore, l’11 maggio 1610, c’erano già tremila convertiti in Cina numero che sale a 200mila il secolo successivo.

Non tutti però ebbero la sua pazienza: «dopo la morte di Matteo Ricci– scrive la storica Giulia Grassi – la sua strategia venne contestata e poi abbandonata: i pontefici condannarono più volte i riti cinesi (ad esempio Clemente XI con la Ex illa die nel 1715, e Benedetto XIV con la bolla Ex quo singolari nel 1742), di fatto sconfessando l’opera di Matteo Ricci.

Ma nel frattempo l‘imperatore Chunxi aveva espulso i missionari dalla Cina (1724), chiudendo le porte di quel mondo non solo alla Chiesa, ma all’Occidente intero

Un atteggiamento che aiuta a capire come mai Matteo Ricci sia quasi più conosciuto in Cina che in Europa (Italia compresa), al punto che, scrive Antonio Paolucci su l’Osservatore Romano, «per vedere riconosciuta la gloria del gesuita dobbiamo andare nel Millennium Museum di Pechino dentro il monumento celebrativo di uno Stato socialista e ateo.

Mirabile esempio di eterogenesi dei fini. O di ironia di Dio, come preferisco dire».