Al pari degli operatori della Croce Rossa o degli inviati delle missioni umanitarie internazionali, anche i nostri missionari hanno il diritto di venire protetti in situazioni di pericolo. Le loro vite a rischio devono essere preservate. Ma come? Usando alcuni modelli di auto-difesa non violenta, mutuati dal mondo animale, ad esempio.
Oltre mille missionari uccisi negli ultimi 30 anni, età media 50,6 anni. La missione della Chiesa è una realtà che comporta sempre più rischi. Ma l’odium fidei è solo una delle cause di questa mattanza e di certo non la più rilevante. I nostri missionari muoiono perché vivono in contesti difficili, poveri.
Spesso drammatici. In Paesi dove alla povertà si aggiunge l’incertezza legata ai conflitti, alle epidemie, alla precarietà. Ma anche al crimine. Senza essere adeguatamente protetti ed aver mai ricevuto un training mirato, gli inviati in terra di missione continuano ad operare, isolati, rischiando la vita, quando invece potrebbero salvarla. «Il rischio non è una fatalità» e può essere evitato, adottando modelli che pur rifiutando l’uso della forza, consentano di mettere in atto una serie di azioni di prevenzione del pericolo.
Se n’è parlato nel corso di un incontro a Roma, organizzato dal Centro pastorale per la cooperazione missionaria tra le Chiese.
Tra i relatori, il comboniano padre Gianpaolo Pezzi, Marco Ramazzotti, socio-economista e antropologo, e Antonio Kamil Mikhail, ex capo della Sicurezza dell’Ifad e investigatore della polizia giudiziaria.
Partiamo da un dato: il 29,2% dei missionari che sono stati ammazzati in questi anni, dice l’Agenzia Fides, è deceduto in seguito a furti, rapine e motivi legati alla criminalità. E’ venuto il momento di iniziare a dare a questi inviati gli strumenti giusti per proteggersi. Perché la vita è preziosa e il martirio può attendere.
«La perdita della sacralità fa sì che oggi ci sentiamo e siamo più a rischio – spiega padre Pezzi – Le situazioni di criminalità sono sempre più frequenti e anche i rapimenti dei missionari sono spesso dovuti alla miseria, laddove la Chiesa si presenta agli occhi del mondo come fosse una fonte di ricchezza», anche quando non lo è affatto o lo è meno di quanto sembri.
«In Africa mi sono trovato a vivere durante due conflitti molto gravi, uno dei quali, quello tra Hutu e Tutsi in Rwanda – racconta padre Pezzi – e mi è parso che la conoscenza problematica del contesto del Paese non fosse stata adeguatamente fornita dalla nunziatura», generando grossi problemi e rischi ulteriori.
Dunque, si parte dalla esatta rappresentazione della realtà socio-politica nella quale ci si troverà ad operare. E’ vero, evangelizzare è obiettivo prioritario della Chiesa in missione, ma lo è anche la condivisione consapevole di un pezzo di Storia nei Paesi di riferimento, assieme alle comunità locali con le quali si sceglie di percorrere il cammino.
Il comboniano dice che «il 12% dei missionari uccisi in questi anni è morto per azioni legate alla criminalità politica», ma anche alle rivolte e alla guerriglia.
«I missionari – spiega – sono persone come tutte le altre ed hanno bisogno di situarsi meglio nei contesti di riferimento per sapere esattamente cosa fare e come reagire in situazioni di pericolo».
Anche perché lo stress può giocare brutti scherzi: «In situazioni adrenaliniche la capacità di gestire autonomamente i sentimenti e le reazioni è importantissima. Di fronte ai pericoli, il tipo di reazione che metti in campo può esserti fatale». Alle volte basterebbe maggior auto controllo o qualche stratagemma in più per salvarsi la vita.
Se ai cooperanti e ai componenti delle missioni umanitarie o ai giornalisti, vengono forniti tutti gli strumenti adatti per affrontare, senza armi, la violenza, perché questo non accade nel caso della Chiesa in missione? Il martirio non è auspicabile, dice padre Pezzi, e spesso quello che uccide non è neanche martirio: è la scarsità di risorse di rete.
Manca certamente l’abitudine culturale e mentale nella Chiesa italiana a riflettere sul tema della sicurezza, anche perché in passato il missionario era meno soggetto alla criminalità comune, e godeva di un maggior rispetto tributato alle figure religiose che lo rendeva quasi “intoccabile”.
In parte si tratta di fare uno sforzo in più di inculturazione, dice padre Pezzi: «Il nostro problema è anche l’arroganza culturale.
In un contesto di conflitti, certe gaffe culturali sono pericolose, non ci fanno rispondere in modo corretto al pericolo. Io in Burundi ho cominciato ad un certo punto ad avere dei problemi e ho capito l’importanza di imparare la lingua locale».
Marco Ramazzotti fa notare che «il missionario italiano è sottoposto al diritto del lavoro ed è pertanto soggetto alle norme italiane. Qualsiasi congregazione o diocesi che mandi i missionari all’estero, deve rispettare il diritto del lavoro italiano».
E allora a maggior ragione ogni inviato ha anche il diritto di potersi difendere senza ricorrere alle armi: «Si tratta – suggerisce Kamil – di modelli che non hanno la capacità di offendere ma che attraverso l’organizzazione interna che ricalca quella del gregge in pericolo, riescono a mettere in moto una strategia di fuga dal pericolo».
L’esperto suggerisce di guardare alle organizzazioni umanitarie sul campo: «Come reagiscono durante le situazioni estreme? Si attrezzano, andandosi a cercare un sistema di sicurezza che protegge il personale e garantisce anche la continuità delle missioni, rifiutando l’uso delle armi».
Cosa possono fare i nostri missionari oggi? «Anzitutto – dice Kamil – dotarsi di un osservatorio che abbracci l’insieme delle presenze religiose in una data area e che si accerti che non ci siano differenze di comprensione del pericolo tra i vari gruppi di missionari: l’allerta deve essere a livello mondiale.
Se una congregazione ha informazioni che non sono passate ad altri, questo gap deve essere colmato. Nella sede centrale ci deve essere un gruppo che unifichi le direttive».
In secondo luogo, è necessario parlare di sicurezza e diffondere il tema legato al contesto: se si opera in un territorio dove è in corso una epidemia grave, è necessario fornire dei training mirati. «Non bisogna mai lasciare che la sicurezza sia qualcosa che riguardi solo gli altri», dice.
La vita dei missionari è preziosa quanto quella dei cooperanti e degli operatori delle Nazioni Unite e non è vero che morire in missione sia qualcosa di eroico di cui andare fieri. Impariamo dagli animali, dice Khamil: «Il gregge è preparato a reagire al pericolo. Sa quando deve correre, sa in che modalità schierarsi e a chi obbedire».
Perché le cose cambino anche in ambito missionario, le diocesi devono prenderne coscienza e le congregazioni seguire questi input: in fondo l’addestramento del personale in caso di pericoli naturali, incendi e terremoti, è una prassi comune in tutti i posti di lavoro, tanto più dovrebbe esserci un addestramento sistematico e costante nei luoghi più rischiosi al mondo. I nostri missionari valgono, e piangerne la morte a posteriori non è esattamente un’alternativa.