In queste settimane, è stata posta una forte enfasi dalla stampa e da alcuni settori della politica italiana, sulle responsabilità francesi in Africa, con particolare riferimento al fenomeno migratorio che ha interessato l’Europa in questi anni. Com’è noto, il mondo missionario e coloro che operano nel settore della cooperazione allo sviluppo, da tempo stigmatizzano le responsabilità dell’ex potenze coloniali che hanno fortemente condizionato la storia di molti Paesi africani fino ai giorni nostri. Ma sarebbe forviante pensare che le responsabilità ricadano tutte sui nostri cugini transalpini. È evidente che la Francia ha fatto la sua parte, ma occorre comunque sempre grande obiettività nel valutare lo scenario geopolitico panafricano quando si tratta di ingerenze straniere. Ad esempio, tra gli oltre 23mila migranti sbarcati in Italia nel 2018, quelli provenienti dai 14 Paesi che usano il cosiddetto franco Cfa (che significava all’origine nel 1945,“Franco delle colonie francesi d’Africa” e oggi diventato acronimo di “Comunità finanziaria africana”) sono meno del 9%.
Se da una parte è chiaro che si tratta di una scelta monetaria voluta dalla Francia per conservare la propria influenza su quella parte dell’Africa in cui ha sempre esercitato una leadership politica, culturale, linguistica e commerciale, dall’altra è importante riflettere in modo realistico, evitando di scadere in generalizzazioni e luoghi comuni.
Il franco Cfa venne creato al momento della ratifica, da parte della Francia, degli accordi di Bretton Woods che oltre al noto Gold exchange standard (che indicava il sistema monetario in cui i biglietti di banca a corso legale erano convertibili ad un prezzo stabilito in divise estere a loro volta convertibili in oro) sancirono la nascita del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
Attualmente , vi sono due tipologie di franco Cfa: la prima è quella adottata da sei Paesi dell’Africa centrale, riuniti nella Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (Cemac); mentre la seconda riguarda otto Paesi dell’Africa occidentale, riuniti nell’Unione economica e monetaria ovest-africana (Uemoa).
Il primo cartello ha come istituto di emissione la Banque centrale des États de l’Afrique de l’Ouest; il secondo gruppo la Banque des États de l’Afrique centrale. Da rilevare che le due divise non sono intercambiabili e da quando è stato introdotto l’euro, il valore del franco Cfa è stato agganciato alla nuova divisa europea (1 Euro = 655,957 franchi Cfa). Ecco che allora è evidente che, con questo tipo di premesse, il franco Cfa non aiuta lo sviluppo dei Paesi che lo hanno adottato. Infatti, gli imprenditori africani che intendono esportare i loro prodotti in Europa, si trovano in difficoltà con il cambio fisso che rende molto onerose le loro merci, mentre, dall’altra parte, viene agevolato in questo modo l’export degli agricoltori francesi ed europei. Un fenomeno che peraltro si è acuito con l’introduzione, da parte dell’Unione europea (Ue) degli Epa (Economic Partnership Agreements, in italiano Accordi di Partenariato Economico) che penalizzano fortemente l’economia africana, non solo per quanto concerne l’abolizione dei proventi dei dazi doganali che costituiscono una gran fetta del proprio Prodotto interno lordo (Pil) africano, ma anche perché i prodotti africani, in particolare quelli finiti, non possono, con le attuali regole, competere internazionalmente con le merci provenienti dalla Ue o da altri Paesi industrializzati. Inoltre, è evidente che il controllo della massa monetaria del franco Cfa e la stampa delle banconote rimangono ancor oggi in parte in Francia e in parte presso le istituzioni europee. Inoltre occorre considerare l’obbligo capestro per i 14 Paesi che fanno uso del franco Cfa di depositare il 50% delle loro riserve monetarie presso il Tesoro francese. In pratica, quando essi esportano verso un Paese diverso dalla Francia, incassando dollari o euro, essi hanno l’obbligo di trasferire il 50% di questo ricavo presso la Banca di Francia. Così, per esempio, se la Costa d’Avorio, previo esplicito permesso di Parigi, decidesse di esportare un proprio prodotto verso gli Stati Uniti per un valore di 50mila dollari, dovrà comunque trasferirne 25 mila alla Banca centrale francese. Per carità, stiamo parlando di circa 10 miliardi di euro depositati complessivamente in Francia dai 14 Paesi africani, per cui se tutti fossero investiti in titoli di Stato, non supererebbero lo 0,5% del debito francese; ma ciò non toglie che per economie povere come quelle dell’Africa sub sahariana, non si tratti di semplici briciole. Da rilevare, poi, che nell’ambito degli accordi sul franco Cfa, vi è anche il “primo diritto” per la Francia di comprare qualsiasi commodity (materie prime minerarie, fonti energetiche e prodotti agricoli) delle sue ex colonie. Da qui il controllo della ex potenza coloniale su tutte queste ricchezze di enorme valore strategico come uranio, oro, petrolio, gas, cacao… Questo in sostanza significa, che è necessaria un’esplicita dichiarazione di Parigi di “non interesse”, per ottenere il permesso di rivolgersi ad un altro compratore straniero. Ecco che si capisce come mai Parigi non abbia mai esitato ad intervenire militarmente nelle sue ex colonie africane. Proprio come è avvenuto nel corso dell’ultimo decennio, in Costa d’Avorio, in Ciad, nella Repubblica Centrafricana o in Mali. Alcuni opinionisti obiettano sostenendo che l’adozione del franco Cfa rappresenti una sorta di scudo contro la svalutazione e le impennate inflattive che interessano molti Paesi africani, col risultato che l’adozione di questa divisa faciliterebbe l’integrazione regionale e gli scambi tra i Paesi che la utilizzano. Come argomentazione convince poco, non foss’altro perché sono molte le controindicazioni. Anche se poi è chiaro che con l’ingresso in Africa della Cina, ormai primo partner commerciale del Continente, degli Usa, dell’India, del Brasile, della Turchia e della Russia, la Francia ha di fatto, rispetto al passato, molto filo da torcere nel tutelare i propri interessi.