“Ciao! Mi chiamo Rahimu, ho 3 anni e mezzo e vivo a Kwediboma. Ho una sorella e due fratelli. Sono vivace, curioso e non sto fermo un attimo. Due anni fa ho perso la mia mamma e il mio papà. Stavo giocando con i miei fratelli davanti alla nostra capanna. Quel giorno il papà, che spesso si allontanava, è tornato molto arrabbiato: mi ricordo le sue urla e il suo viso adirato. Io ero in braccio alla mamma quando si è scaraventato su di lei e ha iniziato a picchiarla, lasciando me a terra. L’ha trascinata dentro casa, reclamando qualcosa da mangiare. Abbiamo sentito grida, pianti disperati: la mamma continuava a ripetere che non c’era da mangiare per lui e nemmeno per noi quella sera; ma il papà insisteva per avere del cibo. Poi non abbiamo sentito più nulla, silenzio. Solo il rumore delle nostre lacrime. Il papà è uscito, e ci ha spintonati dentro casa: per terra ho visto la mamma in una pozza di sangue, fatta a pezzi. Il papà ci obbligava ad assistere a quell’orrore. Poco dopo la stanza si è riempita di gente, confusa, agitata: tra loro il capo villaggio. Proprio lui, qualche ora più tardi, ha ucciso il mio papà, ubriaco, pieno di rabbia e povertà. Qualche giorno dopo ci hanno portato qui, dove vivo ora, nel Centro Antonio Rosmini di Kwediboma.”
Ho provato a raccontare qualcosa della storia di Rahimu, un bimbo che ho incontrato nell’orfanotrofio di Kwediboma, gestito dalle suore Rosminiane. Se Rahimu potesse parlarci, direbbe che è un bambino fortunato, perché può andare a scuola. Perché ha un letto tutto suo: un letto vero con il materasso e una coperta. Perché può mangiare appena sveglio, e anche prima di andare a dormire.
Addirittura può gustarsi una caramella, di domenica. Se Rahimu potesse parlarci, direbbe di essere un bambino felice e senza problemi. Perché a Kwediboma è stato accolto, amato, protetto da qualcuno che senza pretese ha scelto di prendersi cura di lui e dei suoi fratelli. Direbbe il nome della sua mamma e del suo papà ricordandoli nelle preghiere, senza capire perché non ci siano più, ma facendosene una ragione. Poi non direbbe altro, a parte “prendimi in braccio”, “vieni a giocare con me” o “ti voglio bene”. Rahimu ha perso tutto, e troppo presto, eppure è un bambino ricco di affetto, di amore sincero, di sorrisi e di una forza che lascia a bocca aperta chiunque abbia avuto la fortuna di giocare con lui o di prenderlo in braccio prima di accompagnarlo a dormire. Quel posto è ricco di un Amore che va oltre ogni povertà e ogni perdita, che anima i bambini che vi sono stati accolti. Bambini che hanno conosciuto il dolore troppo presto, ma che hanno il diritto di credere in un futuro degno.
Caterina, Tanzania