Il presidente padrone Robert Mugabe – 93 anni, 37 dei quali vissuti ininterrottamente da leader – si è dimesso ieri, dopo un colpo di Stato militare. Ma ora inizia la vera partita per lo Zimbabwe ‘liberato’.
Sarà un futuro inedito quello che attende il popolo, o un dejavu politico e una nuova trappola autoritaria?
La stampa locale e gli analisti internazionali tracciano scenari poco rassicuranti.
Le due incognite restano la Cina (superpotenza economica e maggior investitore che non interviene direttamente nelle scelte politiche ma le orienta a suo modo), e il vice-presidente esiliato, Emmerson Mnangagwa, rientrato immediatamente per riprendersi un ruolo ed occupare la poltrona vacante, almeno fino a nuove elezioni.
Secondo la stampa locale il colpo di Stato ‘smart’ è stata una messa in scena per deporre il dinosauro Mugabe e riportare in patria Mnangagwa, defenestrato meno di un mese fa dalla first lady Grace.
«Voglio congratularmi con il popolo dello Zimbabwe – ha detto Mnangagwa appena rimesso piede nel Paese – per questo storico momento. Insieme potremo assicurare una transizione pacifica verso il consolidamento della democrazia e un nuovo avvio per tutti, promuovendo pace ed unità».
Il giornale on-line britannico The Conversation scrive: «è chiaro che ciò che ha spinto i comandanti militari ad agire è stata la paura di perdere la propria influenza ed eventualmente il posto di lavoro, dopo che il loro pupillo (il candidato alla presidenza Mnangagwa ndr.) è stato messo alla porta da Mugabe.
Hanno inferto un colpo preventivo per salvaguardare se stessi come classe militare e il futuro delle proprie carriere».
Dato il rapporto simbiotico esistente tra i militari dello Zimbabwe e il partito al potere, il Zanu— Pf era inevitabile che i comandanti dell’esercito fossero coinvolti nella lotta alla successione.
D’altro lato i militari hanno sempre avuto un ruolo – scrive ancora The Conversation – nel neutralizzare le opposizioni e non hanno esitato in passato ad usare la forza sui ribelli e i manifestanti in protesta.
Che dire però della Cina e della sua fortissima influenza economica in Zimbabwe?
Pechino – scrive l’Asian Nikkei Review – monitorerà attentamente tutta la campagna elettorale che porterà al voto di luglio e soprattutto terrà d’occhio i candidati, cercando come sempre il partner più affidabile.
Stavolta però dovrà fare i conti con un crecsente sentimento popolare anticinese, venuto su dal basso: il popolo è frustrato per questa intesa inossidabile tra la Cina e il partito al governo, che dura da anni oramai, ed è un legame che risale alla lotta di liberazione dall’ex potenza coloniale britannica.
«In anni recenti – scrive Asia Nikkei – quando le potenze occidentali hanno iniziato a prendere le distanze dal governo sempre più autoritario di Mugabe, la Cina ha rappresentato linfa vitale per la traballante economia dello Zimbabwe, finanziando l’esercito e pompando capitali nel settore delle costruzioni, delle miniere, dell’energia e anche in quello agricolo».
Il volume commerciale tra i due Paesi ha superato il miliardo di dollari e nel 2015 il presidente cinese Xi Jinping ha promesso alla controparte altri 4 miliardi di dollari in aiuti e investimenti.
«I laeder hanno ottenuto un notevole sostegno militare da parte dei cinesi – dice Charles Laurie, analista di Verisk Maplecroft – tra cui attrezzature militari, armi d intelligence per sostenere il regime di Mugabe».
La gente lo sa e sa che sostenere l’opposizione, in Zimbabwe, significa anche rischiare di mettersi contro Pechino.
Eppure è noto che la Cina in Africa sta dalla parte di chi sta dalla sua parte e non ostacola la sua penetrazione commerciale e il business, a prescindere dal colore politico di chi governa.