La necessità della “profezia dentro la Chiesa” va di pari passo con la denuncia. Ma anche con la bellezza del dono e della cura.

Con le quattro testimonianze di stamani il forum di ‘Cantiere missione’, in corso a Montesilvano, conduce la platea in Madagascar, a Castel Volturno e a Puccallpa in Perù.

Dalle periferie al mondo e viceversa. Perchè “dalla periferia si vede meglio il mondo”, dicono i protagonisti.

Il panel era moderato dalla giornalista di Nigrizia Jessica Cugini.

“Il profeta è colui che chiama le cose con il proprio nome – ha ricordato Filippo Ivardi, comboniano per dieci anni in Ciad e oggi nella terra dei fuochi- Una parola sulla quale dobbiamo puntare molto come Chiesa, è profezia”.

“Noi, dalla periferia, dal nostro punto di osservazione che è Castel Volturno, pensiamo che manchi ancora profezia, dobbiamo decostruire molto: decostruire linguaggi, decostruire arroganza, ci vuole coraggio”.

La comunità dei comboniani in questi anni ha tessuto reti e relazioni in quella che viene considerata la “discarica dei popoli”, terra di migrazione.

“Siamo a due passi da tutto, tra Caserta e Napoli, lungo la via Domiziana: in 27 km sono rappresentati 92 stati al mondo. I più numerosi tra gli immigrati sono nigeriani e ghanesi, arrivati nel corso degli anni”.

In un territorio dominato dall’abusivismo edilizio e dai rifiuti tossici i comboniani, cercano di “passare ad un cantiere di umanità con il bisogno di tessere speranza”.

Filippo racconta che “il villaggio Coppola a Castel Volturno era l’emblema dell’abbaglio della ricchezza. Così come l’elezione di Trump è l’emblema del declino”.

Giacomo Crespi e Silvia Caglio, coppia missionaria fidei donum di Milano, con due figli, per sei anni sono stati in missione a Pucallpa, in Perù.

“Eravamo stranieri in terra straniera ma non ci siamo mai sentiti soli – ha raccontato Silvia – Al rientro in Italia abbiamo vissuto la difficoltà di tornare in un mondo che sentivamo non più nostro.

Qui la nostra missione è stata riuscire a non farci imbruttire”.

Silvia ha raccontato la bellezza del dono e della cura che non sono mai unilaterali:

“moltissime persone a Pucallpa si sono prese cura di noi.

Il vangelo lì è tangibile, si vede e si tocca con mano. E’ una fede molto concreta e più reale”.

Per sei anni lei e il marito hanno vissuto in una zona amazzonica dove il clima è molto caldo e le piogge, quando ci sono, sono torrenziali per cui la gente nei giorni di alluvione resta in casa.

“Abbiamo imparato a lasciarci fermare dalla pioggia e a farci cambiare il programma di vita quotidiano”, raccontano.

Quando è stato necessario scegliere tra tornare in Italia o restare, per far nascere i loro figli, hanno scelto di condividere ancora di più la vita della gente, e dunque hanno deciso di restare.

Questo ha trasformato ulteriormente la loro missione.

Enrica Salsi, laica fidei donum di Reggio Emilia è partita per il Madagascar e vive nell’isola oramai da 17 anni.

“Ho chiesto ai vescovi di poter rimanere nell’ospedale psichiatrico di Manakara: era il 2008 e quello era un luogo di abbandono”.

Gli ammalati vivevano di elemosina, senza nome e senza cura: “era la discarica degli ammalati”, ricorda Enrica.

Con il tempo quello è diventato il luogo del dono e della cura.

“Una cura che lascia liberi”.

“Questa gente avrebbe tutte le ragioni del mondo per non credere che Dio sia un padre buono – dice Enrica Salsi – Una delle prime cose che abbiamo fatto è stato costruire una mensa e poi dare un nome a chi non ce l’aveva”.

Per Enrica Salsi la cura per gli altri “è paziente e non dice mai basta”. Un’attenzione missionaria che continua a dare frutto.