Occorre essere accanto per sentirci vicini? È necessario incontrarsi tutti i giorni per volersi bene?
No! Perché possiamo testimoniare vicinanza anche a 10mila km di distanza: come accade con i missionari sparsi nel mondo ad esempio. Oggi poi, grazie ai mezzi di comunicazione, siamo molto più vicini di quanto immaginiamo. Testimoniare vicinanza significa essere prossimi, far sentire la propria presenza, umana e spirituale. Negli anni della pandemia abbiamo sperimentato l’isolamento, ma potevamo comunque essere accanto ai nostri cari anche se in stanze separate. Prendersi cura dei vicini, dei bisognosi, dei malati: stare loro accanto, manifestare la nostra disponibilità a dare una mano. E se non possiamo fisicamente per impedimenti oggettivi, stiamo accanto nell’animo, con la preghiera, con una telefonata. A volte il sostegno morale è molto più importante di faticose faccende fisiche.
DOMENICO FETTI E BOTTEGA, LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO
1620 circa, olio su tavola, 61 x 45cm, Gallerie dell’Accademia, Venezia.
Con quest’opera Fetti decide di raccontare la parabola del buon Samaritano in modo nuovo, attraverso alcuni espedienti. L’artista infatti raffigura un momento diverso rispetto alla tradizionale immagine del buon Samaritano mentre guarisce l’uomo ferito e attaccato dai briganti. La scena realizzata da Fetti rappresenta il momento successivo nel quale il Samaritano carica con fatica il corpo dell’uomo sull’asino con l’obiettivo di portarlo in un luogo dove potersi prendere cura di lui. L’invito è quello all’amore e alla pietà, sulla strada tracciata da Gesù. In particolare è importante notare come l’artista decida di rappresentare i due uomini talmente vicini da confondersi e diventare una sola entità. Farsi vicini come il Samaritano nei confronti dell’uomo sofferente, significa guardare, avvicinarsi, accogliere e farsi carico delle ferite dell’altro, condividendole nella strada della vita.
RENATO ZERO: Nei giardini che nessuno sa
Questa canzone può essere considerata una vera e propria poesia messa in musica, dedicata a tutte quelle persone sole e fragili, anziane o con disabilità. Zero punta soprattutto a tutte le anime tristi che hanno un immenso bisogno d’affetto. Il brano porta a riflettere, soprattutto nel finale, quando il cantante si rivolge direttamente a coloro che, senza sentimento, ignorano la sofferenza, fingono di non percepire il disagio, la solitudine e la malinconia. Il brano, in un crescendo di emozioni, volge al termine con il disperato e accorato appello dell’autore rivolto a chi potrebbe aiutare senza troppa fatica con semplici gesti, sensibili e affettuosi.
Giuseppe, di anni 13, ascoltando questo brano dice che: “La canzone di Renato Zero, mi porta a riflettere sull’importanza del donare tempo che è qualcosa di speciale. Fermarsi ad ascoltare, provare ad essere più empatici ci permetterebbe di donare anche un semplice sorriso a chi non riesce più a sorridere. Mi porta soprattutto a pensare alla solitudine che molte persone vivono; provo ad immedesimarmi in essa e sento di voler fare di più. Non servono gesti eclatanti, a volte basta anche semplicemente sedersi accanto a qualcuno e trascorrere un po’ di tempo insieme”.
ANNALENA TONELLI
Laica missionaria in Africa dal 1969, nacque a Forlì nel 1943. «Scelsi di essere per gli altri: i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, che ero bambina e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale».
Nel 1963 contribuì a far nascere il Comitato contro la fame nel mondo, ancora oggi attivo a Forlì. Attivò diverse opere in Kenya e in Somalia, tra cui a Borama la Scuola speciale per sordomuti e bambini disabili e il Centro anti-tubercolosi. Nelle testimonianze e nei racconti di Annalena ritornano spesso gli anni trascorsi a Wajir, dei quali scriveva: “Il mio primo amore furono i malati di tubercolosi, la gente più abbandonata, più rifiutata in quel mondo. Ero a Wajir, nel cuore del deserto del nord-est del Kenya, quando conobbi i primi malati e mi innamorai di loro, e fu un amore per la vita. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a portare loro l’acqua piovana che raccoglievo dai tetti della bella casa che il Governo mi aveva data come insegnante. Loro mi facevano cenni di comando apparentemente disturbati dalla goffaggine di quella giovane donna bianca. Tutto mi era contro. Ero giovane e dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca e dunque disprezzata da quella razza che si considera superiore a tutti. Ero cristiana e dunque disprezzata, rifiutata, temuta. Erano convinti che io fossi andata a Wajir per fare proseliti. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo, in cui il celibato non esiste e non è un valore per nessuno, anzi è un non valore”. Il suo cammino fu lungo e sofferente, pieno di discriminazione e diffidenza, ma lei traeva forza nella preghiera contemplativa, nella meditazione di testi di autori spirituali e nell’adorazione eucaristica, quando possibile: non smise mai di essere vicina alla sua gente e ai suoi malati.
Venne uccisa a Borama la sera del 5 ottobre 2003, dopo trentacinque anni vissuti a testimoniare la radicalità evangelica in terra musulmana.
SUOR RITA GIARETTA E NEWHOPE
Rita Giaretta è una religiosa delle Suore Orsoline di Maria, da sempre impegnata al fianco delle donne, prima come infermiera e come sindacalista. Nel 1995 fonda a Caserta la comunità CASA RUT, una comunità che ha l’obiettivo di soccorrere le donne vittime di sfruttamento della prostituzione, provenienti soprattutto da Africa e Est Europa.
Nei primi 20 anni di attività ha dato rifugio a circa 370 donne, spesso incinte o giovani mamme. Nel 2004 crea la Cooperativa Sociale NewHope con l’obiettivo di fornire una formazione professionale e un’occupazione legale, con una giusta retribuzione, alle donne sottratte alla prostituzione e accolte in Casa Rut. NewHope è un laboratorio di sartoria dove vengono realizzati bellissimi capi in stoffa africana.
Dal Vangelo di Giovanni (Gv 4,5-42)
Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli disse la donna: «Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?». Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le disse: «Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene “non ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replicò la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa». Le disse Gesù: «Sono io, che ti parlo».
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: «Che desideri?», o: «Perché parli con lei?». La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?». Uscirono allora dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Salmo 22
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla;
su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,
per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò nella casa del Signore
per lunghissimi anni.
FOCUS GIUBILEO: Consulta il Sussidio “Pellegrini di speranza” nella sezione POPOLO
Trascorri una giornata senza social network: è un’occasione preziosa per riconnetterti con le persone che hai fisicamente accanto. Spegni il telefono, il computer e gli altri dispositivi connessi a internet. Dedica questo tempo a familiari, amici e colleghi. Incontrali, parla con loro e ascolta le loro storie. Condividi un pasto, organizza una passeggiata nel parco o semplicemente siediti insieme per un caffè.
Questo gesto semplice ti aiuterà a riscoprire il valore delle relazioni autentiche e a vivere più intensamente la realtà che ti circonda.
Sperimenta la gioia di momenti non programmati, la connessione umana è fondamentale quindi prenditi il tempo per valorizzare le relazioni.