I seminaristi in cammino di formazione sono convinti di diventare preti per il mondo? E chi è disponibile anche a partire come fidei donum, se il vescovo glielo chiederà, pensa di andare in missione per salvare o per essere salvato?
Al Convegno missionario nazionale dei seminaristi, in corso a Loreto e organizzato da Missio Consacrati, ecco le voci di Michele Sentina, diacono seminarista di Caltagirone, e di Carlos Vigil, studente salvadoregno nel Pontificio Seminario regionale marchigiano. Entrambe sono la conferma che partire per la missione è un’esperienza che aiuta ad essere più uomo e più cristiano. Forse anche più prete.
Michele Sentina è partito per la Bolivia, dove ha trascorso sei mesi rientrando il 25 marzo scorso. E’ stato il primo seminarista ad usufruire della nuova “Convenzione giovani” della Conferenza episcopale italiana (clicca qui per approfondire). D’accordo con il vescovo di Caltagirone e con il Centro missionario diocesano di Bergamo, Michele si è appoggiato alle realtà bergamasche nel Paese latinoamericano.
Arrivato in Bolivia ha girato per le realtà missionarie che in tanti anni i preti della diocesi lombarda hanno fondato. I primi due mesi è stato a Cochabamba dove ha fatto servizio nel doposcuola, aperto per dare l’opportunità ai bambini più disagiati di studiare e formarsi. Successivamente, a Santa Cruz, ha fatto l’esperienza di servizio nel carcere minorile Fortaleza. Poi in una parrocchia di La Paz ha seguito le attività estive dei ragazzi. E infine con il vescovo monsignor Eugenio Coter è stato nell’Amazzonia boliviana, dove ha celebrato la liturgia della Parola nelle comunità disperse in foresta, che non ricevevano l’eucarestia da un anno o più a causa della vastità dell’area e delle difficoltà per raggiungere ogni angolo dell’Amazzonia.
«L’esperienza missionaria – spiega Michele – era un qualcosa che da sempre volevo fare, soprattutto in virtù della vocazione che Dio ha posto nella mia vita. L’ho sempre ritenuta indispensabile per sperimentare ascolto, vicinanza, preghiera, ma anche per rendermi conto di un mondo completamente altro, al di fuori del mio ambiente quotidiano».
Quest’esperienza, che Michele ha inserito nel suo cammino di formazione verso il sacerdozio, «mi ha riportato, non tanto con i piedi per terra, ma con la faccia per terra – confessa – perché là ti abitui ad ascoltare sofferenze a cui qui non siamo abituati. Sono partito con entusiasmo e gioia, per salvare il mondo, ma in quelle terre sei da solo, inserito in una cultura sconosciuta e all’inizio sperimenti una profonda solitudine: arrivi là e non salvi nessuno, anzi, sono loro che salvano te, che danno senso al perché sei lì». Esperienze forti «in cui sperimenti che non sai cosa fare né dire, esperienze che ti lasciano stimoli per ripensare alla fede, ai modi con cui stare con la gente. Mi porto questa ricchezza: io non mi ricordo quello che ho donato in Bolivia, mi ricordo quello che ho ricevuto».
Questa asimmetria del dare e ricevere si riscontra anche nella testimonianza di Carlos Vigil, studente del Pontificio Seminario regionale marchigiano, arrivato da El Salvador in Italia, proprio per vivere l’esperienza di missione nel nostro Paese. Fa parte di una piccola congregazione religiosa diffusa nella sua nazione di origine, presente con una comunità a San Severino Marche.
Ciò che ha condiviso con i partecipanti al Convegno è l’esperienza di un missionario seminarista. «Ho 33 anni e sono al quinto anno di Seminario. Mi considero un figlio adottivo dell’Italia. Porto con me le storie e le speranze di un popolo sofferente che ha imparato a trasformare le proprie sofferenze in un debito di speranza. Porto con me la testimonianza martire dei tanti contadini, catechisti, uomini della Parola di Dio, santi dal basso che hanno plasmato nel popolo salvadoregno una profonda attenzione missionaria. Un sacerdote italiano è stato mio parroco della mia piccola comunità parrocchiale in El Salvador».
Carlos ha sottolineato che non è importante il luogo geografico per vivere l’esperienza missionaria: «Serve allargare gli orizzonti del cuore al mondo. Arrivare in nuove terre dove si incontrano nuove realtà, nuove culture, che smuovono la parte più profonda di me e allo stesso tempo mi riposizionano».
Nel Seminario marchigiano, suo luogo di missione, ha sperimentato un dono grande che è la comunità: «Non posso vivere il Vangelo da solo. Ho bisogno di altri fratelli che si sforzano di raggiungere la santità. La comunità è un luogo in cui siamo stati riconosciuti, ascoltati e incoraggiati. La comunità insegna a chiedere perdono e a perdonare. Insegna a vedere semi di bene anche nella storia di oggi, segnata da tante ingiustizie e dolori. E questo l’ho imparato anche dagli altri che costituiscono con me la comunità seminariale».