Vilacaya è un piccolo villaggio incastrato tra le montagne millenarie dell’altipiano: 4000 metri di altitudine e terra arida, un cielo azzurro intenso che ti si appiccica agli occhi, e distanze troppo vaste da attraversare per le sole gambe di un uomo.
Vilacaya è uno di quei luoghi invisibili ai più, dove la vita non fa rumore ed è fatta di cose semplici: la preghiera condivisa al mattino e alla sera, la preparazione della mensa per i bimbi che all’uscita da scuola vengono a mangiare il pranzo, il supporto ai bimbi del centro di accoglienza per orfani, le visite alle comunità circostanti, e una serie di imprevedibili eventi che rendono il quotidiano stuzzicante e mai monotono. Vilacaya è uno di quei luoghi dove ho fatto qualcosa per la prima volta, dove imparare a riappropriarmi dello spazio e del tempo è stata una vera conquista. Vilacaya è uno di quei luoghi dove i bimbi vengono abbandonati molto piccoli e la maggior parte di loro non sa dare un abbraccio perché non ne ha mai ricevuto uno: ti corrono incontro col sorriso e poi si bloccano. La presenza delle suore col tempo sta insegnando loro il valore di questo gesto, così a volte è buffo e al tempo stesso bellissimo imparare a farlo insieme. È un affetto grezzo ma pieno di tenerezza.
Vilacaya è uno di quei luoghi dove le persone si incontrano e si salutano per nome, dove si parla molto poco e si lavora in silenzio, dove ogni mattina i bimbi percorrono anche 5 o 6 ore di cammino per raggiungere la scuola, e dove il clima inospitale rende i corpi resistenti e, a volte, indurisce i cuori. Vilacaya è uno di quei luoghi dove manca l’acqua, e forse è anche un po’ colpa nostra, di questa porzione di mondo che con leggerezza spreca e toglie vita a chi sta dall’altra parte e non ha abbastanza voce per farsi ascoltare.
Don Jorge è un uomo mite e generoso che vive a Vilacaya e fa il professore in un villaggio dimenticato da Dio, Chimola, nella cui scuola si contano due classi per un totale di 13 bambini. Don Jorge ha 4 figli, una moglie che lo ama, e una mano quasi immobile a causa di una brutta frattura che non ha mai potuto curare. Era molto piccolo ai tempi in cui successe quell’episodio: una mattina ci porge una sedia e ci racconta della violenza di suo padre, della nostalgia per una madre che non ha mai avuto, della vergogna e della rabbia per quella mano sbriciolata dalle botte e calcificata male. Ci dice che da piccolo sognava di poter studiare e diventare professore, ma il padre analfabeta lo mandava a lavorare nei campi, così alla sera sfinito dalla fatica si metteva sui libri di nascosto per nutrire il suo sogno, si portava i libri appresso mentre andava al pascolo con le capre. Oggi don Jorge sta facendo un dottorato sulla lingua Quechua e non ha ancora smesso di studiare. Le sue figlie più grandi sono le migliori del collegio, e lui è sereno. Ci dice che è in pace perché ha perdonato e ha imparato a trasformare il male che ha ricevuto in qualcosa di buono per gli altri. Per i bimbi di Chimola, molti dei quali stanno vivendo una storia simile alla sua. Per i suoi figli, perché diventino uomini e donne liberi e consapevoli. Don Jorge potrebbe insegnare all’università ma ha scelto di rimanere con queste persone, e di dedicarsi al mestiere di padre e professore con tutto se stesso.
La storia di quest’uomo mi ha fatto pensare al motto episcopale scritto sullo stemma di papa Francesco, che cita la frase attraverso cui Gesù, chiamando Matteo, lo sceglie: “miserando atque eligendo”, cioè “avendo misericordia e scegliendo”. In Bolivia, in don Jorge e in tanti altri, ho avuto la possibilità di osservare come la vita ci chiami in continuazione a scegliere per qualcosa di grande, e al tempo stesso la Misericordia di Dio sia capace, col tempo e con la fiducia, di sanare le fratture più profonde e convertirle in coraggio.
Giulia, Bolivia