La prima volta sarei dovuto partire per la Colombia, era il 2000 ma per diversi motivi dovetti rimandare; finalmente, nel 2007, un sacerdote mi propose di accompagnarlo in Togo. E cosi partii. Fui ospite di un orfanotrofio, che per un mese diventò la mia casa…con 40 fratellini e sorelline. Nel 2009 tornai lì per la seconda volta ma non sapevo che l’esperienza sarebbe stata diversa, molto “diversa” dalla prima.
Quella del Togo non è stata un’esperienza positiva, anzi, mi ha lasciato tanto amaro in bocca. Ero partito con tanto entusiasmo, soprattutto la seconda volta, con il desiderio di incontrare, capire e condividere ma ho dovuto fare i conti con la povertà di cuore (molto peggiore della povertà materiale) di alcune persone. La mia idea di missione, stupidamente, era quella del “dover fare”, e perciò l’unico pensiero era quello di raccogliere fondi per realizzare qualcosa di utile, e così facevo. Questo, con estrema facilità, ha portato a fare i conti con la disonestà, la cattiveria e il relazionarsi in modo interessato di alcune persone con cui stavo condividendo l’esperienza. Dopo il secondo viaggio in Togo, ero deluso, ferito e non volevo più sentir parlare di Africa e di missione. Inoltre dovevo fare i conti anche con chi mi diceva che il mio essere disabile era un limite troppo grande per “fare missione” perché ero inutile, anzi un peso, in terra di missione. Ecco, questo è stato il mio rapporto con la missione e con l’Africa…particolare, no? Ma…
Poi è successo qualcosa.
Ho fatto una delle esperienze più dure, ma al tempo stesso più belle, della mia vita. Un deserto durato 15 mesi. Un lungo periodo di interrogativi, di dubbi…di preghiera silenziosa. E un bel giorno iniziai a riflettere sul fatto che la missione non poteva essere solo quello che avevo vissuto io, e che se Dio aveva chiamato un disabile alla missione doveva esserci un motivo. Fu così che a marzo 2011 partii, da solo, per la Tanzania e da quel momento la mia vita è cambiata totalmente. Ho scoperto, innanzitutto, che “Dio non sceglie chi è capace, ma rende capace chi sceglie”; ho capito, grazie ai miei limiti fisici, che missione non è “essere in grado di fare” ma “saper stare” con l’altro, magari in silenzio, e godere di quella intima gioia, di quel profondo senso di libertà, quel sentirti a casa che solo Mama Africa e i suoi figli sanno darti. Tutto questo ringraziando Dio per averti amato cosi tanto da averti donato la possibilità di vivere l’esperienza di missione. Tutto qui.
Durante la mia prima volta in Tanzania, ero contento di essere ripartito per l’Africa ma la vecchia ferita non era ancora totalmente guarita. Un giorno mi portarono in un villaggio di lebbrosi… mamma mia che paura, ma non potevo dirlo. Dopo pochi minuti dal nostro arrivo, vidi una donna che si dirigeva verso di me e all’improvviso mi abbracciò e incominciò a parlare. Io non capivo, ciò che rimaneva delle sue mani e del suo corpo ormai totalmente deforme mi spaventava e, mi vergogno a dirlo, mi faceva schifo. L’abbraccio e il monologo durarono quattro interminabili minuti e qui la sorpresa… ad un certo punto, mentre la donna mi stringeva e mi parlava, passai dalla brutta sensazione iniziale a sentirmi coccolato, atteso, amato. Poco dopo, chiesi a chi mi accompagnava cosa avesse detto la donna mentre mi abbracciava… Per tutto il tempo aveva pregato: aveva ringraziato Dio per aver mandato qualcuno a passare un po’ di tempo con loro e pregava perché io continuassi a servire Dio nei poveri… Quella vecchia donna, cieca e malata, è la missione fatta persona.
Credo che l’esperienza di missione è quella possibilità che Dio mi da per accorciare la distanza tra ciò che sono e ciò che sono chiamato ad essere: un uomo felice che vive e condivide con gli altri la Gioia del Vangelo.
Oggi in Italia cerco di vivere la missione provando a vivere quello che Mama Africa mi ha donato: ho imparato che missione è vivere un pezzetto della strada della vita insieme a chi il Signore ci mette accanto, ho imparato che ognuno di noi ha un vitale bisogno degli altri… Sai… “Io sono perché noi siamo”… l’Ubuntu!
Ivan, Tanzania